L’indagine archeologica in corso a Civita Giuliana, frazione di Pompei, continua a restituire immagini sorprendenti e complesse della vita quotidiana nel mondo romano, in particolare all’interno del complesso denominato “villa degli schiavi”.
I recenti scavi, finanziati con un contributo di 140.000 euro nell’ambito della “Campagna nazionale di scavi a Pompei e in altri parchi nazionali” prevista dalla legge di bilancio del 2024, hanno portato alla luce un deposito di alimenti eccezionalmente conservato, consistente in anfore contenenti fave e un ampio cesto colmo di frutta.
Queste scoperte illuminano la condizione di uomini, donne e bambini, considerati “strumenti parlanti” dai loro padroni, che vivevano in celle anguste, spesso di soli 16 metri quadri, dove si ammassavano fino a tre letti.
Ma il ritrovamento non si limita a documentare una mera sussistenza.
Contrariamente a stereotipi semplicistici, rivela un’attenzione, seppur pragmatica, nella gestione dell’alimentazione degli schiavi.
L’abbondanza di frutta e fave, alimenti ricchi di vitamine e proteine, suggerisce che i proprietari si preoccupavano di mantenere in buono stato di salute la loro “merce”, consapevole del valore economico che essa rappresentava, spesso misurato in migliaia di sestersi.
Il fenomeno solleva interrogativi profondi sulla natura stessa della schiavitù romana.
La cura, seppur calcolata, dell’alimentazione degli schiavi, a volte superiore a quella riservata ai ceti meno abbienti della popolazione libera, evidenzia l’assurdità intrinseca di un sistema che negava la dignità umana in nome del profitto.
Come sottolinea il direttore del sito di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, co-autore dello studio sul quartiere servile, la scoperta testimonia la difficoltà di sopprimere completamente la natura umana, anche nelle condizioni più degradanti.
L’esperienza condivisa, la stessa aria respirata, il cibo consumato, creavano una prossimità ineludibile, che sfumava i confini tra schiavo e libero.
Questa vicinanza, paradossalmente, rendeva più evidente la disumanizzazione del sistema schiavistico, costringendo a una riflessione sulla fragilità della condizione umana e sulla relativa arbitrarietà delle distinzioni sociali.
I resti alimentari, oltre a fornire preziose informazioni sulla dieta e l’economia del mondo romano, si configurano quindi come potenti simboli di una contraddizione irrisolta e di una profonda ingiustizia.






