La scomparsa di Martina, una giovane di soli quattordici anni, rappresenta una lacerazione profonda nel tessuto sociale, un’eco agghiacciante di una realtà che non possiamo più eludere. La sua esistenza, irta di potenzialità, di relazioni nascenti, di ambizioni ancora da concretizzare, è stata brutalmente interrotta, lasciando un vuoto incolmabile e interrogativi dolorosi. Un atto di violenza inaudita, che trascende il singolo crimine per diventare simbolo di un problema endemico: la violenza di genere, una piaga che si insinua nel cuore delle nostre comunità, colpendo con spietata indifferenza anche le fasce più vulnerabili della popolazione.Le parole della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, risuonano come un grido di dolore e un appello alla responsabilità collettiva. Il cordoglio espresso alla famiglia, dilaniata da un lutto impossibile da lenire, è accompagnato da un monito severo per il sistema giudiziario, chiamato a garantire la massima espiazione per il colpevole. Ma al di là della risposta legale, emerge l’urgente necessità di un ripensamento radicale, una trasformazione culturale e sociale che affondi le radici stesse del problema.La mera promulgazione di leggi, per quanto necessarie, si rivela insufficiente se non affiancata da un’educazione al rispetto, all’empatia, all’uguaglianza, che permei ogni livello della società, dalla scuola alla famiglia, dai media all’ambiente lavorativo. Dobbiamo analizzare le dinamiche relazionali, le narrazioni patriarcali che legittimano comportamenti aggressivi e di controllo, le disuguaglianze di potere che rendono le donne particolarmente vulnerabili.La tragedia di Martina non può essere relegata a una cronaca nera, a un evento isolato. Deve diventare un catalizzatore per un dibattito ampio e profondo, che coinvolga psicologi, pedagoghi, sociologi, operatori del settore, politici, ma soprattutto, donne e uomini, giovani e anziani. Dobbiamo interrogare le nostre coscienze, riconoscere i segnali di allarme, costruire reti di supporto, promuovere modelli di mascolinità positiva, che rifiutino la violenza e l’oppressione.I progressi compiuti in passato, seppur importanti, non devono indurci in un senso di compiutezza illusoria. La ferita è ancora aperta e richiede cure costanti, impegno concreto, un investimento continuo nell’umanità. Per Martina. Per tutte le donne che vivono nella paura e nella precarietà. Per un futuro in cui il rispetto e la sicurezza siano diritti inviolabili, garantiti a ogni individuo, senza distinzioni di età, di genere o di provenienza. Il silenzio è complice. La mobilitazione è dovere.
Martina, una ferita aperta: urgenza di un cambio culturale.
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