sabato, 28 Giugno 2025
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Bologna, ristoratore antimafia: lo Stato lo spolia dopo averlo tutelato.

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Maurizio Di Stefano, ristoratore bolognese, si ritrova intrappolato in una spirale burocratica e giudiziaria che lo pone di fronte a una drammatica dissonanza: lo Stato che lo aveva riconosciuto vittima di intimidazioni mafiose, ora lo mira a spoliare dei benefici che, con fatica e speranza, aveva costruito. La sua storia incarna una profonda ferita nel tessuto della giustizia e un campanello d’allarme per la tutela delle vittime di mafia.Quasi quindici anni fa, la sua libreria nel cuore di Catania, simbolo di cultura e indipendenza, fu brutalmente stroncata dal racket mafioso. La scelta di denunciare, un atto di coraggio in un contesto di omertà e paura, lo costrinse ad abbandonare la sua terra, segnato dalla precarietà e dalla perdita. Ripartire per Bologna significò reinventarsi, trasformando la tradizione culinaria siciliana in un’avventura imprenditoriale, un tentativo di ricostruire la propria esistenza e offrire un’immagine di resilienza.Un supporto fondamentale in questa ricostruzione è arrivato dal fondo di solidarietà per le vittime di estorsione e usura. Dopo un’approfondita istruttoria, che coinvolse la Procura di Catania e altre istituzioni competenti, un decreto del Commissario del Governo, nel 2017, gli concesse un contributo di circa 150.000 euro. Questa somma non fu semplicemente un aiuto economico, ma un investimento nel futuro, un segnale di fiducia da parte dello Stato che permise a Di Stefano di realizzare il suo locale, “Liccu”, in via Ranzani, un punto di riferimento per la cucina siciliana autentica.Ora, però, questa stessa fiducia si è trasformata in un’amara trappola. L’Agenzia delle Entrate ha emesso una cartella esattoriale che lo obbliga a restituire l’intera somma ricevuta, innescando una nuova, estenuante battaglia legale. La motivazione addotta è legata all’evoluzione dei procedimenti penali originariamente avviati a Catania. Inizialmente, le denunce di estorsione avevano portato all’apertura di un’inchiesta, ma successivamente, a causa di complesse dinamiche giudiziarie, le ipotesi di estorsione sono state archiviate, lasciando in piedi solo l’accusa di usura aggravata. Questa sottile, ma cruciale, distinzione ha portato il tribunale civile di Catania a respingere il suo primo ricorso, sostenendo che la revoca delle accuse di estorsione priva Di Stefano dei requisiti legali per accedere al fondo antiracket.L’esito di questa vicenda trascende la sfera personale di Di Stefano. Rappresenta una profonda contraddizione nel sistema di protezione delle vittime di mafia, una violazione del principio di fiducia che dovrebbe legare lo Stato ai cittadini che, con coraggio, si oppongono alla criminalità organizzata. La sua vicenda solleva interrogativi inquietanti sulla coerenza delle politiche di sostegno alle vittime, sull’impatto delle evoluzioni procedurali sulle loro condizioni economiche e sulla capacità dello Stato di garantire una protezione reale e duratura a chi ha subito le violenze delle mafie. L’udienza fissata per il 2026 appare lontana, ma la speranza di giustizia e la necessità di un cambio di paradigma rimangono più urgenti che mai.

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