La vicenda di Cristina Mazzotti, una giovane donna rapita e assassinata nella Brianza comasca nel 1975, continua a riverberarsi attraverso il processo in corso a Como, dove la Procura antimafia di Milano ha richiesto l’ergastolo per i tre imputati.
Il caso, inizialmente avvolto nel mistero e tormentato da depistaggi, riemerge a distanza di decenni grazie a indagini e sviluppi tecnologici che hanno permesso di attribuire con maggiore certezza le responsabilità.
I tre uomini ora in tribunale – Giuseppe Calabrò, settantacinque anni, originario di San Luca, in Calabria, e residente a Bovalino; Antonio Talia, settantatré anni, proveniente da Africo, sempre in Calabria; e Demetrio Latella, settantuno anni, soprannominato “Luciano”, residente nel Novarese – sono accusati di aver partecipato al rapimento e all’omicidio di Cristina, strappata alla sua serenità nella tranquilla località di Eupilio, il 30 giugno 1975.
Il corpo senza vita della giovane è stato ritrovato, quasi tre mesi dopo, in una discarica a Galliate, in provincia di Novara, segnando l’inizio di un’indagine lunga e complessa.
L’elemento chiave che ha portato alla riapertura del caso e all’individuazione degli imputati è stata la scoperta, avvenuta a fine 2006, di un’impronta digitale appartenente a Demetrio Latella sulla carrozzeria della Mini Cooper sulla quale Cristina era salita la sera della sua scomparsa.
L’avanzamento del sistema Afis, l’archivio informatico delle impronte digitali della polizia scientifica di Roma, ha reso possibile l’identificazione, precedentemente impossibile a causa delle limitate capacità tecnologiche dell’epoca.
Questa scoperta ha rappresentato un punto di svolta, sbloccando un’indagine precedentemente impantanata in vicoli ciechi e ostacolata da mancate corrispondenze e silenzi complici.
La richiesta di ergastolo da parte della Procura antimafia di Milano suggerisce un legame con dinamiche criminali più ampie, ipotizzando che il rapimento e l’omicidio di Cristina Mazzotti non siano stati un mero fatto isolato, ma parte di una rete di interessi occulti e connessioni con la ‘ndrangheta, l’organizzazione criminale calabrese.
Le indagini hanno portato alla luce possibili legami tra gli imputati e figure influenti nel mondo della criminalità organizzata, insinuando che il rapimento possa essere stato commissionato per motivi economici o di vendetta.
Il processo, pertanto, non si configura solo come una ricerca di giustizia per Cristina Mazzotti e la sua famiglia, ma anche come un’opportunità per fare luce su un passato oscuro, svelare schemi criminali e ricostruire un quadro più completo delle dinamiche che hanno caratterizzato la regione lombarda e calabrese negli anni ’70.
La vicenda pone inoltre interrogativi cruciali sull’evoluzione delle tecniche investigative, sul ruolo della tecnologia nella risoluzione dei crimini irrisolti e sulla responsabilità dello Stato nel perseguire la verità e garantire la giustizia, anche a distanza di decenni.