Nel cuore di San Vittore, una tragedia si è consumata, aggiungendosi a un macabro e allarmante bilancio. Un giovane uomo, ventiduenne, originario di un paese extra-comunitario, ha posto fine alla propria esistenza lunedì mattina. Nonostante il tempestivo intervento dei soccorsi, la gravità delle ferite ha reso vano il trasporto in ospedale, dove è spirato nella serata successiva. Questo atto disperato si configura come il trentaseiesimo suicidio all’interno delle carceri italiane nel corso di quest’anno, un dato che, se considerato isolatamente, risulterebbe già sconvolgente, ma che assume una connotazione ancora più drammatica se si aggiungono le due vite di operatori penitenziari spezzate, anch’esse vittime di un sistema in profonda crisi.La sequenza di decessi, apparentemente casuali, trascende i confini dei reati commessi, omettendo di considerare persino il ruolo ricoperto dai detenuti all’interno dello Stato. Questi drammi non rappresentano semplici eventi isolati, bensì i sintomi di una patologia più profonda che affligge l’intero apparato giustiziale. Detenuti e personale penitenziario, in questa tragica equazione, sono accomunati da una condizione di profonda precarietà, vittime di una erosione dello stato di diritto che si manifesta in modalità di detenzione che spesso sfociano nell’illegale e nell’inhumano.La dignità dei detenuti viene calpestata da un sistema che li priva di orologi biologici, di luce naturale, di contatti umani significativi, relegandoli in spazi sovraffollati e insalubri. La loro esistenza si riduce a un’attesa infinita, alimentata dalla frustrazione e dalla disperazione. Allo stesso tempo, gli operatori penitenziari, uomini e donne che si dedicano quotidianamente al difficile compito di garantire la sicurezza e il reinserimento dei detenuti, si trovano a lavorare in condizioni al limite dell’insopportabile: carenza di personale, stipendi inadeguati, mancanza di formazione specifica, esposizione costante a situazioni di rischio e violenza.Questa spirale di sofferenza e disumanizzazione non è un destino ineluttabile. È il risultato di scelte politiche e gestionali che hanno progressivamente depauperato le risorse destinate al sistema penitenziario, privilegiando la repressione rispetto alla riabilitazione. È una conseguenza della tendenza a considerare la pena detentiva come un mero strumento di punizione, trascurando il suo potenziale rieducativo.È imperativo un cambio di paradigma, un ripensamento radicale del sistema penitenziario italiano. Urge investire in personale qualificato, in programmi di formazione, in progetti di reinserimento sociale, in strutture dignitose e sicure. È necessario riaffermare il valore della dignità umana, anche e soprattutto all’interno delle carceri, riconoscendo che ogni detenuto è un individuo, con una storia e un potenziale, e che ogni operatore penitenziario merita rispetto e riconoscimento per il suo prezioso lavoro. Solo così sarà possibile spezzare questa catena di tragedie e restituire speranza a chi è privato della libertà. La morte di questo giovane uomo non deve essere un numero in una statistica, ma un campanello d’allarme che ci spinga all’azione, a un impegno concreto per un sistema penitenziario più umano, giusto e rispettoso dei diritti fondamentali di ogni persona.
Tragedia in carcere: il 36° suicidio, un campanello d’allarme.
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