Trentacinque anni sono trascorsi da quel 3 settembre 1982, una data che ha segnato un punto di rottura nella storia italiana e, in particolare, nella coscienza civile siciliana.
L’agguato di via Carini, a Palermo, dove il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto, e la sua compagna Emanuela Setti Carraro, giornalista e figura intellettuale di spicco, persero la vita insieme all’agente di scorta Domenico Russo, rappresenta una ferita ancora aperta, un monito costante contro l’omertà e la collusione.
La commemorazione, a cui hanno presieduto il ministro dell’Interno Piantedosi, la presidente della Commissione Antimafia Colosimo, il sindaco Lagalla e il prefetto Mariani, ha rievocato non solo l’atrocità del gesto, ma anche le speranze e le disillusioni che esso incarnò.
Dalla Chiesa, figura poliedrica e combattente instancabile contro il terrorismo nero negli anni di piombo, fu chiamato in Sicilia con l’aspettativa di sconfiggere Cosa Nostra.
La sua nomina, sebbene accompagnata da promesse di strumenti legislativi e di poteri speciali, si rivelò presto un’illusione.
L’esperienza decennale di Dalla Chiesa in Sicilia, in ruoli di responsabilità, gli aveva insegnato la complessità del tessuto criminale e le sue radici profonde nella società, nell’economia e, purtroppo, nella politica.
Lungi dall’essere un elemento di cambiamento radicale, il generale si trovò a navigare in un mare di ambiguità, dove la lotta alla mafia si scontrava con interessi costituiti e resistenze silenziose.
L’agguato non fu una semplice vendetta per azioni antiterrorismo condotte in passato, bensì un messaggio inequivocabile indirizzato allo Stato: un avviso di non toccare.
Era la mafia a dettare legge, a dimostrare la sua forza ineluttabile.
La rapida e brutale esecuzione, orchestrata con precisione e spietatezza, testimoniava la sua capacità di penetrare ogni livello istituzionale e sociale.
Il fallimento delle indagini, inizialmente impantanate in depistaggi e omissioni, acuì il senso di impotenza e di sfiducia.
Il cartello lasciato dai cittadini palermitani, con la scritta “Qui è morta la speranza”, cattura l’essenza del trauma collettivo.
Era la speranza di una Sicilia libera dalla morsa criminale, di un futuro in cui la legalità e la giustizia potessero trionfare.
Dalla Chiesa, con il suo carisma e la sua determinazione, era stato percepito come un salvatore, un uomo capace di risvegliare le coscienze e di invertire la rotta.
La sua morte, tuttavia, spense quella fiamma, lasciando dietro di sé un vuoto incolmabile e una cicatrice indelebile nella memoria del popolo siciliano.
La memoria di Dalla Chiesa non deve essere relegata a un mero ricordo del passato, ma deve ispirare un impegno costante nella lotta alla criminalità organizzata, promuovendo la trasparenza, la legalità e la partecipazione attiva dei cittadini.
La sua eredità risiede nella necessità di creare una cultura della responsabilità, in cui nessuno possa sentirsi immune o silente di fronte alle ingiustizie e alle prepotenze.
Solo così sarà possibile onorare la sua memoria e costruire un futuro più giusto e sicuro per la Sicilia e per l’Italia intera.