Il processo che si è riaperto a Caltanissetta, sotto lo sguardo del giudice Francesco D’Arrigo, rappresenta un capitolo cruciale e complesso nell’indagine sulla strage di Capaci, un evento che ha scosso profondamente la coscienza italiana.
Al banco degli imputati figurano Walter Giustini, ex brigadiere dei carabinieri, e Maria Romeo, figura legata al collaboratore di giustizia Alberto Lo Cicero, deceduto.
Le accuse, che gravano pesantemente su entrambi, includono depistaggio, calunnia e falsa testimonianza, focalizzandosi in particolare sulla cosiddetta “pista nera”, ovvero l’esplorazione di possibili collegamenti tra l’attentato e ambienti neofascisti ed eversivi, con riferimenti specifici a figure come Stefano Delle Chiaie.
L’obiettivo del processo non è solo quello di accertare le responsabilità individuali, ma anche di fare luce su dinamiche investigative potenzialmente compromesse, che potrebbero aver ostacolato l’emersione della verità sulla strage che ha visto la perdita della vita del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta.
L’accusa nei confronti di Giustini si concentra sulla sua presunta partecipazione al depistaggio, mentre Romeo è accusata di aver fornito false testimonianze, rendendo necessario un esame approfondito delle sue dichiarazioni e dei loro possibili moventi.
Un elemento centrale dell’udienza odierna è stata la deposizione, in videoconferenza, del generale Borghini, all’epoca comandante del gruppo carabinieri di Palermo.
La testimonianza, apparentemente semplice, ha innescato una serie di interrogativi e sollevato dubbi significativi.
Borghini ha ricordato una telefonata ricevuta da Bruno Contrada, all’epoca procuratore aggiunto, che lamentava come le attività investigative condotte dal brigadiere Giustini interferissero con altre indagini in corso.
La risposta del generale, secondo quanto riferito, fu quella di suggerire a Contrada di sottoporre il problema all’autorità giudiziaria, riconoscendo l’impossibilità di limitare l’azione di un sottufficiale impegnato in attività di polizia giudiziaria.
Tuttavia, un dettaglio cruciale è emerso dalla testimonianza: il generale Borghini ha dichiarato di non avere un ricordo preciso di questa telefonata, affermando che il ricordo gli è stato “riportato” dal giudice Scarpinato.
Questo elemento ha immediatamente suscitato l’attenzione della pubblica accusa, rappresentata dalla dott.ssa Nadia Caruso, che ha chiesto spiegazioni su come il giudice Scarpinato potesse essere a conoscenza di una conversazione interna al comando carabinieri.
La suggestione avanzata dal generale Borghini è quella di un possibile controllo illegale sulla linea telefonica di Contrada, piuttosto che quella del centralino dei carabinieri.
Questa ipotesi, se confermata, aprirebbe scenari inquietanti, insinuando un quadro di possibili interferenze e manipolazioni all’interno del sistema giudiziario e delle forze dell’ordine, con l’obiettivo di proteggere determinati interessi o di nascondere la verità sulla strage di Capaci.
La ricostruzione del percorso informativo che ha portato il giudice Scarpinato a conoscenza della telefonata, e l’identificazione di chi e come abbia potuto controllare la linea di Contrada, diventano quindi elementi chiave per accertare la piena verità e per fare luce su eventuali responsabilità di alto livello.
Il processo si configura, dunque, non solo come un tentativo di accertare le responsabilità individuali, ma anche come un’occasione per riaprire un capitolo oscuro della storia italiana e per garantire che la verità, finalmente, possa emergere.







