Un intreccio di relazioni professionali e politiche solleva interrogativi inquietanti nel panorama siciliano, gettando luce su possibili conflitti d’interesse e sull’opacità di alcuni rapporti tra istituzioni e partito.
Al centro della vicenda, figure di spicco della Democrazia Cristiana (DC) siciliana, come Laura Abbadessa, presidente del partito in Sicilia, e Francesca Donato, vice presidente nazionale, si sono trovate a percepire compensi derivanti da contratti di consulenza con assessorati regionali guidati da esponenti dello stesso partito.
L’attenzione si concentra in particolare sul ruolo di Francesca Donato, eletta ai vertici della DC due anni prima, e sul suo contratto con l’assessorato alla Funzione Pubblica, diretto da Andrea Messina.
Il contratto, stipulato ad aprile, la vede impegnata come coordinatrice della segreteria tecnica con una retribuzione superiore ai 42.000 euro, una cifra che alimenta sospetti su possibili favoritismi e un’eccessiva commistione tra attività politica e rapporti di lavoro retribuiti.
La vicenda si inserisce in un quadro più ampio, caratterizzato da un’inchiesta giudiziaria che coinvolge diverse figure di rilievo, tra cui l’ex governatore Totò Cuffaro e il capogruppo Carmelo Pace, accusati di associazione a delinquere, corruzione e turbativa d’asta.
L’inchiesta ha scatenato un terremoto interno alla DC siciliana, mettendo a nudo dinamiche e comportamenti che, a quanto pare, erano rimasti a lungo nell’ombra.
In una missiva pubblicata dal quotidiano “la Repubblica” di Palermo, Francesca Donato, con toni accesi e un’apparente volontà di trasparenza, esprime la propria indignazione per le accuse mosse ai dirigenti del partito.
Donato, pur riconoscendo che la stragrande maggioranza degli iscritti era all’insaputa di queste pratiche, rifiuta la retorica consolatoria e invita a un’autocritica radicale.
La sua presa di posizione, seppur tardiva, sottolinea la necessità di un profondo ripensamento dei valori e dei principi che hanno guidato l’azione politica della DC siciliana, e pone l’accento sulla responsabilità collettiva di fronte a un’emergenza morale che rischia di compromettere l’immagine e la credibilità dell’intero schieramento.
Il linguaggio utilizzato da Donato – rabbia, disgusto, dolore – rivela un profondo smarrimento e un senso di tradimento nei confronti di un partito che, un tempo, incarnava ideali di onestà e competenza.
La sua testimonianza, pur nella sua brevità, rappresenta un tentativo di rompere il silenzio, di denunciare un sistema che ha permesso a pochi di arricchirsi a spese della collettività, e di contribuire a una nuova stagione di rinnovamento etico-politico, auspicando una revisione completa dei meccanismi decisionali e dei controlli interni, al fine di garantire una maggiore trasparenza e responsabilità nell’esercizio del potere.
La vicenda, pertanto, si configura non solo come un’inchiesta giudiziaria, ma come un campanello d’allarme per l’intera classe politica siciliana, invitando a una riflessione profonda sulle cause che hanno portato al collasso della fiducia dei cittadini e alla perdita di valori fondamentali.







