La decisione del Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) e la successiva conferma da parte del Tribunale del Riesame hanno scompigliato gli equilibri di un’inchiesta che solleva interrogativi cruciali sull’intersezione tra il diritto alla salute, il segreto professionale e la collaborazione con la giustizia.
Il medico gastroenterologo Sebastiano Bavetta, figura chiave nell’indagine sul latitante Matteo Messina Denaro, ha visto respinta la richiesta di arresto avanzata dalla Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di Palermo.
L’episodio risale al 3 novembre 2020, data in cui Bavetta eseguì una colonscopia sul boss mafioso, all’epoca sotto falsa identità, un dettaglio che amplifica la complessità del caso.
L’indagine si concentra sull’accusa di favoreggiamento aggravato, un capo d’imputazione che impone al medico l’onere di dimostrare di non aver avuto piena consapevolezza dell’identità del paziente.
La Procura di Palermo, nella sua richiesta di custodia cautelare, sostiene che Bavetta, pur operando sotto le consuete procedure mediche, fosse a conoscenza di trattare un individuo ricercato e latitante.
Questa presunta consapevolezza, se accertata, costituirebbe una violazione del dovere di collaborazione con la giustizia e una compromissione della ricerca della verità processuale.
Il rifiuto dell’arresto da parte del GIP e del Tribunale del Riesame, come riportato da Livesicilia, sottolinea la delicatezza del bilanciamento richiesto in questo scenario.
Il diritto alla salute, sancito dalla Costituzione, garantisce a ogni individuo, anche a un latitante, l’accesso alle cure mediche.
Tuttavia, tale diritto non può essere invocato per ostacolare l’azione della giustizia o per favorire attività criminali.
L’episodio solleva questioni etiche e giuridiche di notevole portata.
Fino a che punto il segreto professionale, pilastro fondamentale della relazione medico-paziente, può essere invocato per proteggere un individuo sospettato di gravi reati? Qual è il confine tra l’esercizio legittimo della professione medica e la collaborazione, anche involontaria, con la criminalità organizzata?La vicenda di Bavetta, al di là della sua responsabilità personale, mette in luce una più ampia problematica: la difficoltà per le istituzioni di intercettare e neutralizzare latitanti che, pur operando in un contesto di apparente normalità, si avvalgono della vulnerabilità del sistema sanitario per eludere la giustizia.
L’indagine, e il dibattito che ne consegue, stimola una riflessione necessaria sull’efficacia dei protocolli di sicurezza, sulla formazione del personale sanitario e sulla necessità di rafforzare i meccanismi di controllo per prevenire simili situazioni in futuro.
Il caso non si limita a una vicenda giudiziaria, ma si configura come un campanello d’allarme per l’intero sistema.








