Processo a Anan Yaeesh e compagni: tra testimonianze, politica e la persistente aspirazione alla libertàL’aula della Corte d’Assise dell’Aquila si appresta ad accogliere una nuova fase cruciale nel processo a carico di Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh, figure accusate di associazione con finalità terroristiche.
Le udienze previste mercoledì 9 e giovedì 10 luglio rappresentano un punto di svolta, segnando l’inizio delle deposizioni a carico della difesa e, soprattutto, la possibilità per gli imputati di esporre la propria versione dei fatti.
Yaeesh, detenuto presso il carcere di Terni da oltre un anno e mezzo, parteciperà all’udienza in videoconferenza, un dettaglio che sottolinea la complessità logistica e la natura di forte risonanza mediatica del caso.
Parallelamente all’attività giudiziaria, si prospetta una vivace mobilitazione di supporto.
Organizzazioni come Soccorso Rosso Proletario e i comitati spontanei pro-Palestina hanno programmato presidi di solidarietà di fronte al tribunale, con appuntamenti fissati per le prime ore delle mattinate.
La tensione si estende oltre i confini dell’Aquila: a Teramo, in concomitanza, è in programma un incontro pubblico intitolato “Gaza, il genocidio e la resistenza”, nell’ambito del torneo antirazzista della Casa del Popolo, un segnale della profonda eco che il processo sta suscitando nell’opinione pubblica.
Le udienze precedenti, interamente dedicate all’escussione dei testimoni dell’accusa, secondo gli attivisti, non hanno apportato elementi sostanziali in grado di chiarire o confutare le accuse mosse agli imputati.
L’impressione che si configura, sempre secondo le fonti di attivismo, è quella di un processo intrinsecamente politico, strumentalizzato per soffocare le motivazioni e le ragioni della resistenza palestinese.
Le criticità emerse nel corso del processo – come la mancata proiezione integrale di un video ritenuto cruciale, la traduzione parziale delle dichiarazioni di Yaeesh e l’impossibilità di ascoltare testimoni chiave come Francesca Albanese – alimentano il sospetto di una volontà di impedire l’emergere di verità scomode, che potrebbero svelare il contesto politico e le dinamiche di conflitto alla base delle accuse.
L’ipotesi di una sentenza immediata, inizialmente ventilata, appare ormai remota.
Il pubblico ministero ha espresso perplessità riguardo alla fattibilità di una discussione finale nei tempi ristretti previsti, suggerendo un rinvio probabile a settembre, con due udienze consecutive dedicate alle arringhe finali e alle repliche conclusive.
Le parole pronunciate da Anan Yaeesh in videoconferenza il 2 aprile scorso, parole di sfida e di fede nella resistenza, risuonano come un monito e una promessa: “Oggi sono vostro prigioniero, ma se non verrò giudicato equamente, otterrò comunque la mia libertà, non importa quanto tempo dovrà passare.
La Palestina sconfiggerà l’occupazione, se un popolo desidera vivere, la vita sarà il suo destino.
” Questa dichiarazione, carica di significato simbolico, incarna la determinazione degli imputati e la loro ferma convinzione nella causa che li vede coinvolti, anche a costo di affrontare un processo giudiziario che, per molti, appare profondamente viziato da pregiudizi e interessi politici.
Il dibattito si proietta, quindi, oltre i confini dell’aula, alimentando un acceso confronto sulle dinamiche del conflitto palestinese e sulla natura stessa della giustizia in un contesto di profonda disuguaglianza.