L’era delle illusioni è finita.
Non possiamo più ignorare la realtà impellente: siamo inghiottiti da un conflitto globale, un conflitto che trascende le semplici battaglie militari e si insinua nel tessuto stesso della nostra economia e della nostra esistenza.
La retorica del diritto internazionale, un tempo baluardo di ordine e giustizia, si è erosa sotto il peso di un’escalation di violenza inarrestabile, sostituita da una logica di forza e interessi geopolitici convergenti.
L’isolamento di Israele, un processo innegabile e in accelerazione, non si limita a una questione di opinioni o prese di posizione diplomatiche.
Rappresenta una frattura sempre più profonda nel panorama internazionale, un segnale che il sostegno incondizionato di ieri cede il passo a una crescente consapevolezza della necessità di una soluzione equa e duratura.
Parallelamente, l’incremento dei paesi che riconoscono la Palestina non è un mero atto simbolico, ma una manifestazione della crescente pressione internazionale per una giustizia che troppo a lungo è stata negata.
La mobilitazione popolare, un’onda crescente di indignazione che si propaga in Italia e nel mondo, è il riflesso di una profonda consapevolezza: il genocidio in atto non è un evento isolato, ma un sintomo di un sistema disfunzionale.
La corsa al riarmo, alimentata da paure e interessi economici, non garantisce la sicurezza, ma mina le fondamenta stesse del futuro del pianeta.
È imperativo, pertanto, un cambio di rotta radicale.
La politica internazionale deve superare la paralisi e assumersi la responsabilità di intervenire con decisione.
Netanyahu e il suo governo, con le loro azioni destabilizzanti, non solo perpetrano sofferenze indicibili al popolo palestinese, ma minano anche la sicurezza e la prosperità del popolo israeliano.
Allo stesso modo, la leadership russa, con la sua aggressione e la sua retorica bellica, deve essere isolata e costretta al tavolo della negoziazione.
La vera via d’uscita risiede nella volontà politica di intraprendere un dialogo costruttivo, una conferenza di pace autentica e inclusiva che coinvolga tutte le parti interessate.
Un dialogo che non si limiti a palliate, ma affronti le cause profonde del conflitto, garantendo la sicurezza e la dignità di tutti.
Il costo della guerra non è astratto; lo pagano concretamente i lavoratori, le famiglie, le comunità.
L’economia di guerra alimenta l’inflazione, stringe la morsa sulle bollette, erode il potere d’acquisto e devia risorse preziose dalla sanità, dalla scuola, dai servizi essenziali e dalla tutela dei diritti fondamentali.
È quindi tempo di un risveglio collettivo, di un’azione concertata.
Il silenzio non è un’opzione, il disimpegno è una condanna.
Dobbiamo scendere in piazza, far sentire la voce del mondo del lavoro, delle associazioni, delle comunità locali.
Dobbiamo creare un rumore assordante, un coro di voci che chiedano a gran voce pace, giustizia, libertà, diritti.
Senza pace, ogni aspirazione a una società equa e sostenibile è un’illusione.