Il ritorno a Perugia si è rivelato un viaggio segnato non solo dalla stanchezza, ma anche dall’eco tangibile di una realtà bellica, un’esperienza che Moreno Caporalini, manager perugino impegnato in progetti di cooperazione internazionale, porta con sé come un peso e una consapevolezza. Il trasferimento dalla Palestina, precisamente dalle aree di Nablus e Ramallah, dove stava coordinando un’iniziativa volta a migliorare la gestione dei rifiuti in collaborazione con l’Associazione dei Comuni del Trasimeno e Felcos Umbria, si è improvvisamente trasformato in una corsa contro il tempo, un’immersione in un clima di crescente allarme con l’escalation del conflitto tra Israele e Iran.L’aeroporto di Tel Aviv, un tempo punto di collegamento con il mondo, si è inaspettatamente chiuso, costringendo Caporalini a ripercorrere a ritroso il cammino, cercando una via di fuga attraverso la Giordania. Il viaggio, che avrebbe dovuto durare poche ore, si è protratto per tre giorni, un tempo dilatato dall’angoscia e dall’incertezza.Il ricordo più vivido non è tanto la complessità logistica del percorso, ma la sensazione fisica e psicologica della guerra. L’odore acre della polvere da sparo, insopportabile testimonianza di distruzione, permea l’aria, penetrando nelle narici e imprimendosi nella memoria. Nelle città, gli sguardi delle persone raccontano storie di smarrimento, paura e dolore. Le strade, un tempo vivaci, sono deserte, silenziose, segnate dalla precarietà.Il tragitto verso il confine giordano, l’attraversamento del Jordan River bridge, è diventato un simbolo tangibile dell’emergenza. La consueta tranquillità del valico, con la sua colonna di 10-20 persone in attesa, si è dissolta in una lunga e interminabile coda di persone che fuggono. Diplomatici con le loro famiglie, cittadini israeliani desiderosi di abbandonare la zona di conflitto, tutti in un unico, indistinto flusso di persone in fuga.L’esperienza ha lasciato in Caporalini una profonda riflessione sulla natura della guerra, sulla sua capacità di destabilizzare vite e comunità. Più che una narrazione di eventi, il suo racconto è un appello alla comprensione, un monito sulla necessità di avvicinarsi alla realtà del conflitto per coglierne la portata umana. “C’è una tensione palpabile, una rabbia latente, un’incertezza soffocante, ma soprattutto c’è sofferenza,” ha dichiarato. “Chi prende decisioni dovrebbe respirare quell’aria, sentire quell’odore, comprendere la vera essenza del conflitto.” Un’esperienza che, al di là della stanchezza fisica, lascia un segno indelebile nella coscienza, un fardello di consapevolezza da portare con sé.
Ritorno dalla Palestina: l’odore acre della guerra e un appello alla comprensione.
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