Nicola Pietrangeli, figura imponente nel panorama dello sport italiano, incarna un paradosso: un talento straordinario accompagnato da una personalità complessa e, a volte, controversa.
Francesco Cancellotti, tennista perugino e testimone diretto di un’epoca cruciale per il tennis nazionale, ne rievoca la figura con un misto di ammirazione e distacco, sottolineando una tendenza al narcisismo che, pur contribuendo a forgiare la sua immagine, ne ha attenuato la capacità di apprezzare appieno i meriti altrui.
Il racconto del viaggio in Finlandia, in occasione di una Coppa Davis, dipinge un quadro vivido di un’Italia tennistica ancora in fase di sviluppo, lontano dalla risonanza mediatica che avrebbe poi caratterizzato gli anni d’oro.
In quell’ambiente, Pietrangeli emerge come un astro luminoso, ma la sua socievolezza appariva filtrata da una certa autosufficienza, da un’incapacità di riconoscere il valore dei colleghi.
Questa caratteristica, lungi dall’offuscare il suo genio sportivo, ne definisce un profilo particolare, un’aura di unicità che, pur affascinante, lasciava trasparire una certa aridità relazionale.
Cancellotti, con la sensibilità di chi ha condiviso un percorso sportivo e umano, evidenzia come la sua assenza si farà sentire profondamente.
Pietrangeli, insieme a Panatta, ha rappresentato un’epoca d’oro, un’identità tennistica che ha ispirato generazioni di atleti e appassionati.
La loro figura si intreccia indissolubilmente con la storia del tennis italiano, incarnando un’epoca di conquiste, di passione e di un’inconfondibile stile di gioco.
La perdita di una figura così carismatica lascia un vuoto difficile da colmare, non solo per la comunità sportiva, ma per l’intera nazione che ha visto in loro dei modelli di eccellenza e di coraggio.
La loro eredità, tuttavia, sopravvive, come un faro che continua a illuminare il cammino dei giovani talenti che sognano di raggiungere le vette del successo.






