La proposta di legge avanzata dalla Lega, volta a consentire ai governatori regionali di candidarsi per un terzo mandato consecutivo, ha subito una battuta d’arresto significativa in sede di Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica. L’esito del voto, con soli cinque favorevoli e quindici contrari, ha evidenziato una scarsa propensione politica a modificare l’attuale quadro normativo che, di fatto, impone un limite massimo di due mandati consecutivi per i capi delle regioni.Al di là dell’appoggio formale proveniente dalla Lega stessa, Italia Viva e dal rappresentante delle Autonomie, la proposta ha incontrato una forte opposizione trasversale, configurando un blocco politico che ne ha ostacolato l’approvazione in questa fase preliminare. L’astensione del presidente della Commissione, Alberto Balboni (Fratelli d’Italia), e del senatore Domenico Matera, entrambi esponenti del partito di maggioranza, ha aggiunto un ulteriore elemento di complessità, suggerendo, forse, una valutazione cauta o una divergenza interna rispetto all’iniziativa.L’insuccesso dell’emendamento solleva interrogativi più ampi sulla natura del federalismo italiano e sul ruolo dei governatori regionali all’interno del sistema politico nazionale. La questione del mandato unico, o della sua assenza, tocca nodi cruciali relativi all’autonomia regionale, alla continuità amministrativa e alla rappresentatività democratica. Limitare il numero di mandati potrebbe, in teoria, favorire l’afflusso di nuove figure e idee, stimolando un ricambio generazionale e prevenendo derive personalistiche. D’altro canto, impedire ai governatori con comprovata esperienza e conoscenza del territorio di ricandidarsi potrebbe compromettere la stabilità amministrativa e la capacità di realizzare progetti a lungo termine, soprattutto in contesti regionali caratterizzati da complessità socio-economiche significative.La proposta di legge, pur non avendo raggiunto l’obiettivo prefissato, riapre un dibattito importante sulla governance regionale e sulla necessità di trovare un equilibrio tra la garanzia dell’autonomia locale e il rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e pluralismo. L’esito del voto in Commissione Affari Costituzionali segna un punto di svolta, ma non necessariamente la fine di una discussione che, con ogni probabilità, riprenderà in futuro, magari con nuove formulazioni e alleanze politiche. L’analisi di questo episodio politico offre spunti di riflessione sulla dinamica dei rapporti tra Stato e Regioni e sulla complessità di riformare un sistema istituzionale radicato e stratificato.