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giovedì 20 Novembre 2025

Genova: Lavoratori occupano gli stabilimenti, appello alla Meloni

Una miccia si è innescata a Genova, un segnale di disperazione che si propaga come un’onda d’urto lungo l’intera catena industriale legata all’eredità dell’ex Ilva.

L’immagine di tende improvvisate erette di fronte ai cancelli, di lavoratori che manifestano la propria intenzione di trascorrere la notte all’interno delle strutture, è divenuta il simbolo tangibile di una crisi che non può più essere ignorata.
Un messaggio chiaro, un grido di allarme che risuona fino alle sedi del potere centrale a Roma: il piano di risanamento e rilancio, così a lungo invocato e discusso, ha fallito, almeno agli occhi di chi vive e lavora in quei contesti.
Questa escalation rappresenta un punto di svolta nella vertenza, un passaggio da una fase di negoziazione e speranza a una di mobilitazione diretta e conflittualità.

L’occupazione delle strutture, le assemblee spontanee e straordinarie che si moltiplicano, testimoniano un livello di esasperazione e di determinazione non riscontrabile da anni.
Non si tratta più di una semplice critica al piano governativo, ma di una richiesta esplicita di intervento diretto e personale del Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

Il sentimento diffuso è che solo un intervento autoritativo, al di là delle dinamiche burocratiche e delle logiche di mercato, possa evitare il tracollo imminente.
La scadenza del primo marzo, data simbolo di un possibile punto di non ritorno, incombe come una spada di Damocle, alimentando la paura di una chiusura generalizzata degli stabilimenti, con conseguenze devastanti per l’economia locale e per migliaia di famiglie.

La crisi dell’Ilva, o meglio, dell’eredità industriale che ne è derivata, non è solo una questione economica.

È un problema sociale, ambientale e politico.

Ripercorre le storie di intere comunità che hanno costruito la propria identità e il proprio futuro attorno a quella fabbrica, famiglie legate da generazioni al lavoro dell’acciaio.

È una questione di dignità e di giustizia sociale.
La richiesta di un intervento diretto del Presidente del Consiglio riflette la percezione di un vuoto di potere, di un’assenza dello Stato che ha permesso a questa situazione di degenerare.
L’occupazione delle fabbriche, al di là delle sue implicazioni legali, è un atto di resistenza, un tentativo di riappropriarsi di un futuro che sembra essere sfuggito di mano.
È un monito per le istituzioni, un segnale inequivocabile che la situazione richiede un cambio di rotta, una nuova visione che tenga conto non solo degli interessi economici, ma anche delle esigenze e delle aspettative delle persone che vivono e lavorano in quei territori.
Il destino di quegli stabilimenti, e il futuro di quelle comunità, dipendono ora da una scelta cruciale: quella di affrontare la crisi con coraggio e lungimiranza, o condannare un intero settore industriale al declino irreversibile.

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