L’aria è satura di polemiche, spesso amplificate da narrazioni catastrofiste che invocano presunte crisi democratiche.
Un’enfasi eccessiva su questi temi, spesso infondati, rischia di oscurare un problema ben più radicato e urgente: la salute del nostro sistema giudiziario.
Non si tratta di una novità contingente, ma di una condizione cronica che affligge l’Italia da tempo, e che continua a minare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Come testimone diretta, figlia di un uomo ingiustamente travolto da accuse infamanti, posso affermare con dolorosa certezza che nessuna riforma, per quanto ambiziosa e ben congegnata, potrà mai cancellare trent’anni di sofferenza, di calunnie e di devastazione.
Il tempo perduto è un capitale irrecuperabile, e il danno alla reputazione, spesso irreparabile.
Questo non significa, però, che le riforme siano inutili.
Al contrario, rappresentano un passo cruciale verso un sistema giudiziario più equo, efficiente e trasparente.
È imperativo perseguire un cambiamento strutturale che vada oltre la semplice revisione di procedure: è necessario ripensare i tempi della giustizia, la sua imparzialità, il ruolo del pubblico ministero e la tutela dell’innocenza presunta.
La riforma non è una panacea, ma un inizio.
Un punto di partenza per affrontare un problema complesso che richiede un impegno costante e un confronto aperto tra tutte le forze politiche e sociali.
È fondamentale abbandonare le logiche di partito e i personalismi, per concentrarsi sul bene comune e sulla necessità di restituire ai cittadini la fiducia in un sistema giudiziario che sia davvero al servizio della giustizia, e non strumento di vendette o di interessi privati.
La vera emergenza non è la presunta fragilità della democrazia, ma la sua incapacità di garantire a tutti, senza distinzioni, il diritto a un processo equo e rapido, che tuteli la verità e preservi l’onore di ogni individuo.
Solo allora potremo aspirare a una società veramente giusta e civile.







