Silenzio in campo: il grido di Como contro il calcio globalizzato.

Il fischio d’inizio della partita Senigallia-Juventus risuonò in un’insolita quiete.

Per i primi quindici minuti, il pubblico rimase in silenzio, un gesto di protesta che trascendeva la mera disapprovazione per un singolo evento calcistico.
Questo mutismo corale, proveniente dai tifosi del Como, rappresentava un grido di dissenso contro una decisione percepita come un affronto alla loro identità calcistica e alla tradizione del club.
La controversia ruotava attorno alla scelta di disputare la partita Milan-Como a Perth, in Australia.
Un’iniziativa apparentemente volta a espandere il brand del calcio italiano a livello globale, ma che per i tifosi del Como si configurava come un’imposizione di una realtà estranea e distante dai valori che incarnano il club.

Non si trattava di una reazione impulsiva.
Nei giorni precedenti, un comunicato ufficiale dei gruppi tifosi aveva già espresso un rifiuto categorico alla richiesta di “sacrificio” avanzata dalla dirigenza.
Un sacrificio, secondo i tifosi, paradossalmente richiesto da coloro che non avevano mai sperimentato in prima persona la passione autentica e le difficoltà intrinseche alla vita di un club con una storia secolare come il Como.

L’espressione “sacrificio” era particolarmente carica di significato.

I tifosi non contestavano l’impegno economico o logistico necessario per far funzionare una società sportiva.
Contestavano, invece, la pretesa di impartire lezioni di dedizione a chi, a loro avviso, non aveva mai condiviso la vera essenza del tifo, fatta di freddo, di trasferte faticose, di gioie condivise e di delusioni profonde.

Il silenzio protratto allo Senigallia era più di una protesta; era una dichiarazione di principio.

Era un modo per affermare che l’identità di un club non si misura in termini di audience globale o di profitti derivanti da accordi commerciali esotici, ma dalla connessione profonda e radicata con la sua comunità di tifosi, un legame che si nutre di passione, di tradizione e di un senso di appartenenza incondizionato.
La protesta non era solo un rifiuto; era anche una richiesta.

Una richiesta di ascolto, di dialogo, di una maggiore considerazione per le voci e le sensibilità di chi anima il club con la propria presenza e il proprio affetto.

Era un appello a riscoprire il significato più autentico del calcio, quello che va al di là dei numeri e delle strategie di marketing, per ritrovare l’umanità e la passione che lo rendono un fenomeno sociale di straordinaria importanza.

Il silenzio, in definitiva, era l’eco potente di un amore fedele e un monito a non dimenticare le radici.

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