Il ritorno in Italia di Abderrahmane Amajou, attivista piemontese coinvolto nella Global Sumud Flotilla, segna un’occasione cruciale per portare alla luce le condizioni disumane subite durante la detenzione in Israele.
Originario di Bra, in provincia di Cuneo, il 39enne, imbarcato sulla nave Paola 1, è atterrato a Malpensa accolto da una commovente accoglienza familiare e amicale.
La sua testimonianza si aggiunge al coro di voci – altrettanto ferite e indignate – di attivisti scarcerati, offrendo uno sguardo inquietante all’interno del sistema carcerario israeliano e sollevando interrogativi urgenti sui diritti umani e il trattamento dei detenuti.
Le accuse di Amajou, dettagliate e precise, delineano un quadro di deliberata e sistematica intimidazione.
La privazione del sonno, applicata con modalità reiterate e violente, si rivela un’arma psicologica per minare la resistenza e instillare terrore.
Le irruzioni armate, le minacce con i cani, le umilianti posture forzate – inginocchiarsi, alzare le mani – testimoniano un modus operandi volto non solo a controllare fisicamente i detenuti, ma anche a generare un profondo senso di paura e impotenza.
Amajou riferisce di aver assistito a lesioni fisiche riportate da alcuni compagni e di aver visto l’impiego di manette in circostanze non chiare, alimentando il sospetto di una strategia volta a instillare il terrore senza lasciare tracce evidenti di violenza fisica.
L’esperienza dell’attivista non inizia con la detenzione in carcere, ma già durante lo sbarco nel porto di Ashdod, dove ha assistito a un episodio di violenza inequivocabile: un soldato che trascina per i capelli un giovane italiano.
La successiva “generosità” – la distribuzione di bottigliette d’acqua in previsione di una copertura mediatica – si rivela una beffa, una dimostrazione della strumentalizzazione dell’immagine a discapito della dignità umana.
Il sequestro dei farmaci, gettati nella spazzatura e promessi, ma mai forniti dalla farmacia carceraria, evidenzia una disumanizzazione ulteriore, privando i detenuti di cure essenziali.
La negazione delle cure mediche si è concretizzata in uno sciopero della fame collettivo, guidato da due diabetici sull’orlo del collasso nelle celle 16 e 17.
Solo l’intervento di un giudice e di diplomatici ha permesso di mitigare le condizioni, benché lo scenario carcerario continuasse a essere caratterizzato da continui spostamenti e sovraffollamento.
Amajou racconta di aver dormito in celle con 13 persone, con alcuni costretti a giacere per terra su materassi improvvisati.
La testimonianza di Abderrahmane Amajou rappresenta un appello alla giustizia e un monito per la comunità internazionale.
Non si tratta di un episodio isolato, ma di una manifestazione di un sistema che sembra perpetrare abusi con impunità.
La sua voce si aggiunge al bisogno urgente di un’indagine indipendente e trasparente sulle condizioni dei detenuti nei carceri israeliani, affinché i diritti umani non siano più una mera formalità, ma una realtà tangibile per tutti.
Il suo ritorno a casa, pur accolto con gioia, è intriso di una responsabilità: quella di portare la verità al mondo e di lottare per un futuro in cui la dignità umana sia inviolabile, ovunque.








