La perdita di una giovane vita, strappata alla possibilità di un futuro all’interno delle mura del carcere di Frosinone, amplifica un grido di dolore che risuona con una frequenza angosciante nel sistema penitenziario italiano.
Non si tratta di un evento isolato, ma di un sintomo acuto di una crisi sistemica, un campanello d’allarme che il Garante regionale per le persone sottoposste a misure restrittive, Stefano Anastasìa, ha ripetutamente sollevato, testimoniando un fallimento collettivo.
L’uomo, trentenne, con una storia di tossicodipendenza e una condanna definitiva per reati minori, si aggiunge a una tragica lista che include Andrea, deceduto nel febbraio precedente in circostanze altrettanto drammatiche, proprio mentre il Garante era in visita istituzionale per monitorare le condizioni detentive.
La testimonianza diretta di Anastasìa, che descrive la scena di sgomento dei compagni di cella – alcuni impegnati in attività formative, altri in colloqui – evidenzia la fragilità umana, la solitudine e la disperazione che permeano l’ambiente carcerario.
I dati forniti dal rapporto “Ristretti Orizzonti” dipingono un quadro allarmante: un numero inaccettabile di suicidi, aggravato da decessi in circostanze opache che necessitano di un’indagine approfondita.
La Regione Lazio, con i suoi quattro suicidi registrati, è pesantemente colpita, ma la drammaticità è diffusa su tutto il territorio nazionale.
L’aspetto cruciale, e spesso trascurato, è la dimensione strutturale del problema.
I numeri dell’affollamento carcerario, aggiornati a luglio, parlano chiaro: a Frosinone, il tasso di affollamento supera il 127%, un dato che rende inefficaci qualsiasi intervento mirato al benessere psicologico e sociale dei detenuti.
A livello regionale, l’affollamento raggiunge il 148%, mentre a livello nazionale si attesta al 134%.
Queste cifre non sono semplici numeri, ma rappresentano la negazione di uno spazio vitale dignitoso, un ambiente che amplifica l’isolamento e la frustrazione, generando un terreno fertile per la disperazione e l’autodistruzione.
La situazione, dunque, non può essere affrontata con interventi marginali o palliativi.
È necessario un ripensamento radicale delle politiche penali, che vadano oltre la mera risposta punitiva e si concentrino sulla riabilitazione, l’integrazione sociale e la prevenzione del disagio.
È imperativo investire in risorse umane qualificate, in programmi di sostegno psicologico e sociale, in attività formative e lavorative che possano offrire una prospettiva di futuro.
Il carcere non può essere una tomba sociale, un luogo dove si alimenta la spirale della marginalità e della recidiva.
È un sistema che, nel suo attuale stato, non solo fallisce nel suo compito di riabilitazione, ma contribuisce attivamente alla sofferenza umana e alla perdita di vite.
La morte di questo giovane, come le altre che lo hanno preceduto, deve diventare un monito, un appello urgente a un cambiamento profondo e strutturale, un impegno concreto a costruire una giustizia più umana e riparatrice.
Il silenzio, in questo momento, è complice.