La sentenza della Corte europea dei diritti umani (Cedu) rappresenta un punto di svolta nel complesso e controverso dibattito che ruota attorno alla partecipazione femminile nello sport di alto livello.
Con un giudizio definitivo, la Cedu ha sancito una violazione del diritto a un processo equo a carico di Mokgadi Caster Semenya, l’atleta sudafricana di straordinaria forza e talento, protagonista di una battaglia legale di portata globale.
La vicenda non si limita a una questione individuale; essa solleva interrogativi fondamentali sull’equilibrio tra i diritti umani, l’equità sportiva e la definizione stessa di “femminilità” nel contesto atletico.
Il regolamento, introdotto e poi modificato dall’IAAF (ora World Athletics), imponeva a Semenya e ad altre atlete con variazioni delle caratteristiche sessuali correlate al sesso (DSD) di mantenere i livelli di testosterone al di sotto di una certa soglia per poter competere nella categoria femminile.
La sentenza della Cedu non si limita a criticare le decisioni prese in precedenza dal Tribunale federale di Losanna e dal Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS).
La Corte ha evidenziato una carenza di approfondimento nelle analisi precedenti, un mancato esame puntuale degli argomenti presentati dalla Semenya.
Questo non si traduce semplicemente in una critica procedurale, ma riflette un dubbio più profondo: la capacità dei tribunali sportivi di bilanciare efficacemente i diritti umani fondamentali con le esigenze di una competizione equa.
Il cuore della questione risiede nella complessità biologica e sociale che definisce il genere e l’identità.
La linea di demarcazione tra “uomo” e “donna” non è sempre chiara e netta, e le variazioni biologiche possono manifestarsi in modi diversi, sfidando le classificazioni tradizionali.
Imporre limiti fisiologici specifici, basati su una definizione restrittiva di “femminilità”, può comportare discriminazioni ingiuste e limitare la partecipazione di atlete che, pur possedendo caratteristiche uniche, meritano pari opportunità di competere.
La decisione della Cedu, sebbene favorevole a Semenya, non fornisce una soluzione definitiva.
Essa apre la strada a ulteriori riflessioni e revisioni dei regolamenti sportivi, sollecitando un approccio più sensibile e inclusivo.
La necessità di trovare un equilibrio tra l’equità nella competizione, il rispetto dei diritti umani e la promozione della diversità atletica rimane una sfida aperta, un imperativo per il futuro dello sport.
Il caso Semenya è divenuto un simbolo di questa complessa dialettica, un monito a non sacrificare i principi fondamentali sull’altare della performance.