L’aumento degli infortuni nel calcio italiano, e più ampiamente nel panorama calcistico europeo, rappresenta una problematica complessa e multifattoriale che solleva interrogativi urgenti sulla sostenibilità del modello attuale.
La stagione 2024/25 ha registrato un picco preoccupante: 858 infortuni nella Serie A, un incremento del 24% rispetto all’annata precedente.
Questo dato, analizzato nel ‘Men’s European Football Injury Index’ redatto da Howden, un primario broker assicurativo specializzato anche nel settore sportivo, incide pesantemente sull’economia del calcio, generando un costo complessivo stimato in 103,14 milioni di euro.
Tuttavia, limitarsi a questa cifra riduttiva non rende giustizia alla portata del fenomeno.
Gli infortuni non sono solo un costo economico; implicano la perdita di talenti per i club, l’impatto sulla competitività dei campionati, e, soprattutto, un grave rischio per la salute degli atleti.
Il rapporto Howden, che compara la situazione della Serie A con quella degli altri quattro principali campionati europei (Premier League, La Liga, Bundesliga e Ligue 1), evidenzia come l’Italia sia particolarmente colpita, pur non occupando necessariamente la posizione più critica in assoluto.
Le cause di questo aumento sono molteplici e interconnesse.
L’intensificazione del calendario competitivo, con un numero crescente di partite e una riduzione dei tempi di recupero, è sicuramente un fattore determinante.
L’introduzione di nuove competizioni, come l’espansione della Champions League, aggrava ulteriormente la pressione sugli atleti.
Si aggiungono poi fattori legati all’evoluzione della preparazione atletica e delle metodologie di allenamento.
Se da un lato la ricerca di performance sempre più elevate ha portato a progressi significativi, dall’altro può aver anche contribuito a sovraccaricare gli atleti, a volte con un’attenzione insufficiente ai segnali di allarme del corpo.
L’utilizzo massiccio di test genetici e analisi biomeccaniche, pur preziosi, rischia di focalizzarsi eccessivamente sui dati quantitativi, trascurando l’importanza dell’ascolto attivo del singolo atleta e della personalizzazione dei programmi di allenamento.
Non trascurabili sono anche le implicazioni legate alla crescente commercializzazione del calcio, che spesso spinge a privilegiare gli interessi economici a scapito della salute degli atleti.
La pressione per la vittoria, l’ossessione per i risultati a breve termine e la gestione spesso frettolosa dei giocatori aumentano il rischio di infortuni, soprattutto in un contesto in cui i tempi di recupero sono sempre più ristretti.
Infine, l’età media dei giocatori, spesso elevata, rende la rosa più vulnerabile alle problematiche fisiche.
L’esperienza e la maturità comportano anche un maggiore accumulo di microtraumi e usura nel tempo, che possono manifestarsi in infortuni più seri.
L’analisi del rapporto Howden non è solo un campanello d’allarme, ma un invito all’azione.
È necessario un ripensamento radicale del modello calcistico attuale, che metta al centro la salute e il benessere degli atleti, promuovendo un approccio più sostenibile e attento alla prevenzione degli infortuni.
Ciò implica una revisione del calendario competitivo, un investimento maggiore nella ricerca e nello sviluppo di metodologie di allenamento personalizzate, e una cultura sportiva che valorizzi il rispetto dei tempi di recupero e la prevenzione.
Solo così si potrà garantire un futuro più sano e competitivo per il calcio europeo.





