La vicenda giudiziaria che ha portato all’annullamento del trattenimento di un cittadino marocchino nel Centro di Permanenza Temporanea (CPR) di Torino solleva interrogativi cruciali sulla tutela della salute dei migranti detenuti e sulla conformità delle procedure amministrative con i principi costituzionali e il diritto europeo.
La decisione, emessa da un giudice della Corte d’Appello, non si configura come un caso isolato, ma si inserisce in un quadro più ampio di crescenti preoccupazioni riguardanti le condizioni sanitarie all’interno dei CPR, evidenziate anche da una recente pronuncia del Consiglio di Stato.
Il caso specifico ruota attorno a un uomo di 48 anni, espulso dalla prefettura di Monza e successivamente detenuto nel CPR torinese.
La sua richiesta di protezione internazionale era accompagnata da dettagliate segnalazioni relative a una complessa anamnesi, che includeva un infortunio neurochirurgico pregresso, diabete, problematiche legate al consumo di alcol e sostanze stupefacenti, e una serie di disturbi neurologici e somatici, come cefalee, perdita di memoria, lombalgie e ipertensione arteriosa.
Nonostante un certificato di idoneità al trattenimento rilasciato da un’ASL lombarda, la difesa ha presentato documentazione che attestava un grado di invalidità lavorativa pari al 75%, amplificando i dubbi sulla sua idoneità alla detenzione in un contesto che, per sua natura, implica restrizioni alla libertà personale e potenziali limitazioni all’accesso alle cure adeguate.
La decisione del giudice si fonda non solo sulla valutazione del quadro clinico del singolo individuo, ma anche sulla più ampia riflessione riguardante la gestione dei CPR, innescata dalla pronuncia del Consiglio di Stato del 7 ottobre.
Quest’ultima sentenza aveva contestato l’approvazione ministeriale dello schema del capitolato d’appalto per la gestione dei CPR, evidenziando criticità relative alla garanzia di un’assistenza sanitaria adeguata e specialistica per le persone detenute, soprattutto in presenza di patologie preesistenti o di problematiche legate alla salute mentale.
Il giudice Giacomo Marson, nell’analisi del caso, ha sottolineato come il complesso delle circostanze indichi una carenza strutturale nella capacità del CPR di Torino di garantire un’adeguata tutela medica.
La sentenza suggerisce, implicitamente, che le condizioni di detenzione potrebbero compromettere ulteriormente la salute del detenuto e che una risoluzione positiva della situazione, tramite un piano di cura personalizzato e un accesso semplificato ai servizi sanitari, appare improbabile nel breve termine.
La vicenda apre un dibattito più ampio sulla legittimità e sull’opportunità del regime di trattenimento amministrativo per i migranti, soprattutto in relazione al principio di proporzionalità e al diritto alla salute, sancito dall’articolo 2 della Costituzione italiana e riconosciuto a livello europeo.
La sentenza, pertanto, non si limita a liberare un singolo individuo, ma solleva questioni fondamentali sull’intero sistema di accoglienza e gestione dei flussi migratori, invitando a una revisione delle procedure e a un rafforzamento dei meccanismi di controllo e di garanzia dei diritti fondamentali.
La vicenda evidenzia, in definitiva, la necessità di una maggiore attenzione alla vulnerabilità dei migranti detenuti e all’adeguatezza delle misure adottate per la loro tutela.







