L’inchiesta che ha portato alla luce un sofisticato sistema di finanziamento ad Hamas, con nove misure cautelari disposte e un giro di denaro stimato a sette milioni di euro, prosegue nell’analisi degli atti, rivelando connessioni complesse e ruoli sfumati all’interno della rete.
Un nome che emerge con particolare rilevanza, sebbene non risulti indagato, è quello di Mohamed Shahin, imam della moschea di Torino.
Le intercettazioni e le trascrizioni acquisite dagli inquirenti delineano un quadro in cui Shahin, pur non essendo al centro dell’indagine, interagisce con figure chiave tra gli arrestati e partecipa a conversazioni cruciali riguardanti la gestione dei fondi destinati, secondo le accuse, ad Hamas.
L’ordinanza cautelare evidenzia come Shahin fosse consultato dagli arrestati e coinvolto nella movimentazione di risorse finanziarie, in particolare attraverso un individuo sospettato di fungere da raccoglitore di fondi a Torino, incaricato di trasferire il denaro verso Gaza.
Nonostante la mancanza di contatti diretti tra Shahin e Mohammed Hannoun, presidente dell’associazione “Palestinesi in Italia”, figura centrale nell’indagine, il suo ruolo nel tessuto delle relazioni tra gli indagati appare significativo.
Un elemento cruciale è rappresentato dalla figura di Mahmoud El Shobky, non arrestato ma indicato dagli inquirenti come referente per la raccolta fondi in diverse regioni italiane, tra cui Piemonte, costa adriatica, Sicilia e Sardegna.
La sua posizione all’interno della rete di supporto finanziario ad Hamas sembra essere di coordinamento e supervisione delle attività di raccolta.
Un’intercettazione del 26 luglio 2025, in cui Yaser Elasaly, uno degli arrestati, fa riferimento a El Shobky come a un soggetto non direttamente coinvolto nelle operazioni finanziarie, suggerisce una possibile stratificazione dei ruoli e una deliberata volontà di mantenere alcune figure distanti dall’immediata gestione dei fondi.
La frase “Tanto El Shobky non sa niente, sa che prendiamo la ‘amana’ (cioè i soldi) e la consegniamo agli sfollati e ai bisognosi” rivela, in termini di gergo islamico, una possibile giustificazione ideologica alla raccolta e alla successiva destinazione del denaro.
Il riferimento alla ‘amana’, ovvero il denaro affidato in custodia, potrebbe indicare un tentativo di legittimare l’operazione come un atto di carità verso i rifugiati palestinesi.
In un’altra conversazione, datata 6 febbraio 2024, Dawoud Ra’Ed Hussny, soprannominato Abu Falastine e anch’egli arrestato, parla con Shahin della necessità di aprire un conto corrente dedicato a una nuova associazione, presentata come un canale alternativo per la raccolta di fondi destinati ad Hamas.
Questa associazione, insieme all’associazione “Benefica di solidarietà con il Popolo palestinese”, è ritenuta dagli inquirenti parte integrante del sistema di finanziamento.
L’apertura di un nuovo conto corrente suggerisce un tentativo di eludere i controlli e di rendere più difficile la tracciabilità dei fondi.
L’indagine, ora in una fase di analisi approfondita, mira a chiarire il ruolo preciso di Shahin all’interno della rete e a ricostruire la filiera di finanziamento che ha portato i fondi a Hamas, svelando le dinamiche interne e le strategie utilizzate per eludere i controlli e nascondere la vera destinazione del denaro.
La complessità del sistema e la presenza di figure apparentemente distinte, ma interconnesse, rendono l’inchiesta particolarmente impegnativa e richiedono un’analisi meticolosa di tutte le prove raccolte.






