Un episodio che solleva interrogativi profondi sulla gestione del sistema penitenziario italiano si è verificato nel carcere di Vercelli: una detenuta è incinta, verosimilmente a seguito di un incontro con il suo compagno, anch’egli detenuto nella stessa struttura, avvenuto durante un colloquio.
La vicenda, riportata dalla stampa locale, ha immediatamente scatenato una reazione del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Osapp, il quale, con una nota ufficiale, ha denunciato una situazione di “anarchia organizzativa” e sollecitato un’ispezione ministeriale non solo a Vercelli, ma anche nel provveditorato di Torino.
La donna, in detenzione dal giugno 2024, condivide una storia con il compagno: nel 2018 hanno avuto una figlia.
La possibilità di incontrarsi, inizialmente con la bambina presente, e successivamente in colloqui a due, era stata concessa, come documentato dal quotidiano.
L’inattesa gravidanza è stata confermata durante una visita medica presso il pronto soccorso dell’ospedale cittadino.
L’Osapp, pur sottolineando l’assenza di illeciti penali formali, ha espresso una critica feroce, evidenziando come il sistema penitenziario italiano, paradossalmente, permetta ciò che dovrebbe impedire.
La concomitanza con l’apertura, nel carcere di Torino, di una cosiddetta “stanza dell’amore” rafforza la sensazione di una progressiva erosione dei confini istituzionali.
Secondo Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, la situazione riflette un profondo malessere: un personale di polizia penitenziaria costantemente esposto a violenze, aggressioni e carenze di organico, mentre l’amministrazione si preoccupa di soddisfare le esigenze sentimentali dei detenuti.
Questa priorità invertita, secondo il sindacato, ha compromesso la sicurezza, la disciplina e l’efficienza del sistema.
L’elenco delle “libertà” detenute – telefoni cellulari, sostanze stupefacenti e ora la sfera affettiva – testimonia, a loro dire, un progressivo smarrimento dei principi fondamentali della detenzione.
L’episodio di Vercelli, dunque, non si configura come un mero fatto di cronaca, ma come un campanello d’allarme che rivela una profonda crisi di valori e di governance all’interno del sistema penitenziario italiano.
Il sindacato denuncia una deriva che va oltre l’applicazione di politiche penali moderne, configurando una vera e propria anarchia organizzativa, un sistema in cui la detenzione sembra aver perso il suo significato originario, quello di riabilitazione e reinserimento sociale, per trasformarsi in un’esperienza sempre più simile a un’occasione di privilegio.
La vicenda solleva interrogativi urgenti sulla necessità di una revisione radicale delle procedure e delle priorità del sistema penitenziario, con un focus rinnovato sulla sicurezza, sulla disciplina e sul rispetto dei principi fondamentali della giustizia.






