martedì 19 Agosto 2025
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Torino

Murato in cella: un grido d’aiuto dal carcere di Torino.

Nel cuore del carcere di Torino, si consuma da tre anni una vicenda singolare e profondamente inquietante, un microcosmo emblematico delle fragilità e delle disfunzioni che affliggono il sistema penitenziario italiano.

Un detenuto, settantatreenne originario della Calabria, ha eretto una barriera fisica e psicologica, murandosi letteralmente nella sua cella, rifiutando categoricamente qualsiasi contatto con il mondo esterno.

Questo atto estremo, più che una semplice trasgressione, si configura come una drammatica richiesta di aiuto, un grido silenzioso di una psiche martoriata.

La situazione, nota e documentata dagli operatori penitenziari, rivela un quadro clinico complesso e gravissimo, incompatibile con l’ambiente detentivo.
La denuncia, sollevata da Filippo Blengino, segretario nazionale di Radicali Italiani, dopo una visita congiunta con Azione, non è solo un atto di denuncia, ma un appello urgente a intervenire per tutelare la dignità umana di un individuo.

Le informazioni emerse delineano un profilo delicato e complesso.

L’uomo manifesta fobie e rituali ossessivi, con una particolare avversione alla polvere, che si traduce in comportamenti a volte paradossali, come l’insistente necessità di sanificare persino alimenti di base, come i pomodori, con prodotti per la pulizia domestica.

Questa maniacale attenzione all’igiene convive, in maniera disturbante, con le condizioni di degrado che regnano all’interno della sua cella, descritte da testimoni come intrattabili e nauseabonde.

L’allestimento improvvisato della cella, con pareti e finestre rivestite di carta stagnola, riflette un tentativo disperato di isolamento sensoriale, una fuga dal mondo esterno percepito come una minaccia.

La feritoia del blindo, l’unico spiraglio di luce, viene lasciata aperta, ma il detenuto non ne approfitta, preferendo l’oscurità e la solitudine.

Il caso, definito da Blengino come un evento senza precedenti nella sua esperienza pluriennale di visite nelle carceri italiane, solleva interrogativi cruciali sull’adeguatezza delle strutture e dei protocolli di assistenza psichiatrica all’interno del sistema penitenziario.

La mera applicazione della Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), pur necessaria, appare insufficiente per affrontare una condizione così profonda e radicata.

Le reazioni da parte degli attori istituzionali non si sono fatte attendere: un’interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, la segnalazione ai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) e alla Garante regionale dei detenuti sono solo alcuni dei primi passi verso una possibile soluzione.
Questo episodio, ben al di là di un singolo caso di isolamento, rappresenta un campanello d’allarme per l’intero sistema, invitando a una profonda riflessione sulla necessità di investire in risorse umane qualificate, di promuovere percorsi di reinserimento sociale efficaci e di garantire, soprattutto, il rispetto della dignità umana, anche all’interno delle mura carcerarie.

Si tratta di un dovere morale e legale, un imperativo per una società che si professa civile e rispettosa dei diritti fondamentali.

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