La vicenda di Giorgio e sua moglie, marginalizzati e costretti a vivere in tenda a Chivasso, incarna una drammatica dissonanza tra l’ideale di accoglienza e la realtà di un’amministrazione locale che sceglie la via più facile, quella della capra espiatoria.
La loro storia non è un episodio isolato, ma un sintomo di un problema più ampio: la gestione fallimentare di un contesto urbano segnato dal degrado e dalla criminalità, dove la responsabilità viene scaricata su individui vulnerabili.
Per vent’anni Giorgio ha costruito una vita a Chivasso, quindici per sua moglie.
La loro dimora, un immobile abbandonato nell’area della stazione ferroviaria, era conosciuta da tutti.
La loro presenza, per quanto precaria, non aveva mai generato problematiche serie, anzi, per molti era preferibile alla presenza di attività criminali più disturbanti.
La loro routine quotidiana, scandita da preghiere e canti religiosi, era diventata parte integrante del paesaggio urbano, una nota dissonante ma tollerata.
L’irruzione del sindaco Claudio Castello, pressato da polemiche e desideroso di dimostrare una presunta fermezza, ha segnato una svolta drammatica.
La rimozione forzata, orchestrata con un dispiegamento di forze sproporzionato e vergognoso, rivela una profonda miopia politica e una mancanza di sensibilità umana.
Il pretesto, un video amatoriale che immortala Giorgio intento a cantare canzoni sacre, appare patetico e grottesco, un’ammissione di colpevolezza di chi cerca un facile bersaglio.
Le parole di Giorgio, semplici e sincere, smascherano l’amara verità: “Quelli che fanno casino non siamo noi… Lo sanno tutti.
” La responsabilità del degrado e della criminalità è attribuita ad altri, a gruppi di individui che continuano indisturbati le loro attività illecite.
Giorgio e sua moglie, invece, vengono puniti per essere stati troppo visibili, per aver rappresentato una facile presa, un capro espiatorio da sacrificare sull’altare della politica.
L’attuale condizione di marginalità, con il freddo pungente che attanaglia la tenda e le temperature che precipitano sotto lo zero, è una vergogna per una città che si professa accogliente.
La dipendenza dalla mensa di un’associazione di volontariato e dalla generosità di amici rende ancora più evidente la loro fragilità e la loro totale dipendenza dall’assistenza esterna.
La chiusura imminente del dormitorio comunale, peraltro, aggrava ulteriormente la situazione, proiettando Giorgio e sua moglie in un futuro ancora più incerto e precario.
La vicenda non si esaurisce in un mero atto di compassione o di pietà.
Essa rappresenta un monito per l’intera comunità, un invito a riflettere sulle responsabilità individuali e collettive, a interrogarsi sulle modalità di gestione dei problemi sociali e a ripensare il significato stesso di “accoglienza”.
La storia di Giorgio e sua moglie è un appello a non voltare le spalle ai più deboli, a non accettare soluzioni semplici e immediate, ma a impegnarsi per costruire una società più giusta e inclusiva, dove nessuno sia costretto a vivere ai margini, esposto al freddo e all’indifferenza.







