La prospettiva di Angelo Binaghi, presidente della Federazione Italiana Tennis e Padel (FITP), si staglia nitida sullo sfondo delle recenti discussioni suscitate dal Decreto Sport, rivelando un profondo conflitto tra la sua visione ambiziosa per il futuro della Federazione e una presunta divergenza di vedute all’interno del panorama sportivo italiano.
Piuttosto che una semplice difesa della propria posizione, le sue parole si configurano come una riflessione sull’essenza del mandato ricevuto e sulla responsabilità che ne deriva.
Binaghi non si limita a difendere il suo operato; esprime una concezione del tennis italiano che trascende la mera eccellenza tecnica.
Per lui, la Federazione rappresenta un patrimonio nazionale, un’istituzione capace di competere a livello globale non solo per i risultati sportivi, ma anche per l’efficienza organizzativa e la capacità di rappresentare il Paese.
Questa visione, apparentemente condivisa dalle società affiliate che gli hanno conferito il mandato, si scontra ora con resistenze che lo pongono di fronte a un bivio: perseguire la sua strategia, o cedere il passo a chi la interpreti in modo diverso.
La sua dichiarazione, pronunciata durante la presentazione del Masterplan delle ATP Finals 2025, non è un atto di arroganza, bensì un’espressione di integrità professionale.
Afferma, con chiarezza, di non essere disposto a compromettere la sua etica del “vincere”, un principio che guida le sue scelte e definisce il suo approccio alla gestione della Federazione.
L’idea di essere chiamato a perdere o a pareggiare, per lui, è inaccettabile.
La riflessione si estende oltre l’immediato presente, abbracciando la temporalità dell’esperienza umana.
Binaghi sottolinea l’importanza di un inizio e una fine, un concetto universale applicato alla sua pluriennale carriera nel tennis, sport che ha consacrato la sua vita.
La finale di Wimbledon, un evento carico di significato, gli ha offerto l’occasione per meditare sulla natura del tempo e sul momento opportuno per lasciare il testimone.
L’offerta di “levare il disturbo”, ovvero di dimettersi, non è un atto di resa, ma un gesto di lealtà verso il sistema sportivo.
Dimostra la sua disponibilità a mettere da parte la propria visione se essa dovesse rivelarsi un ostacolo al progresso e alla crescita del tennis italiano.
La sua venticinquennale esperienza, un capitolo significativo nella storia dello sport italiano, si pone a disposizione del futuro, consapevole che il bene superiore della Federazione e del tennis stesso possa risiedere in una diversa guida.
Questo non significa rinnegare i successi ottenuti, ma riconoscerne i limiti e accogliere la possibilità di un nuovo inizio.