Il ritrovamento, nel febbraio 2008, del corpo decapitato di Mustafa Sahin, giovane cittadino tedesco di origine turca, lungo l’autostrada A22 in Alto Adige, ha rappresentato una delle sfide investigative più complesse e dolorose per le autorità. Un “cold case” di eccezionale portata, rimasto irrisolto per anni, finché una confessione inaspettata non ha svelato la verità agghiacciante dietro quella tragica scoperta.La figura chiave in questo intricato puzzle è Alfonso Porpora, nato nel 1964, originario della Sicilia, e condannato a vita per due omicidi. Fu proprio durante la sua detenzione presso il carcere di Ellwangen, in Germania, che Porpora rilasciò una confessione che avrebbe fatto luce sulla scomparsa di Sahin, avvenuta il 13 febbraio dello stesso anno nel garage di casa a Sontheim an der Brenz. La brutalità del gesto – strangolamento e decapitazione, quest’ultima mai ammessa da Porpora, la testa del giovane Sahin non è mai stata ritrovata – si unisce all’incredibile distanza geografica della colpevolezza, un atto di violenza pianificato e perpetrato in Germania per poi essere occultato in Italia.La svolta nelle indagini, come annunciato dal procuratore Axel Bisignano, giunge proprio da questa confessione tardiva. Inizialmente, il corpo trovato in Alto Adige era rimasto un “John Doe”, una vittima anonima. Solo la confessione di Porpora ha permesso di collegare quel corpo senza identità a Mustafa Sahin, aprendo un’inchiesta transnazionale che ha visto la polizia del Baden-Württenberg collaborare strettamente con la Procura e la Squadra mobile della questura di Bolzano.Il processo di identificazione si è rivelato delicato e meticoloso. La polizia tedesca, dopo aver ricevuto le fotografie del cadavere dalla questura di Bolzano, le ha mostrate alla moglie di Sahin, figlia di Porpora. Fu lei a riconoscere il marito dalle mani e dagli indumenti. La conferma definitiva è arrivata attraverso un’analisi del DNA, confrontando il materiale genetico recuperato dal corpo con quello dei genitori e dei due figli di Sahin.Questo caso solleva interrogativi profondi sulla natura della violenza, sulla capacità di un individuo di commettere atti così atroci e di nasconderli per anni, e sulla complessità delle indagini che coinvolgono più nazioni e culture. La confessione di Porpora, giunta a distanza di anni, non solo ha finalmente restituito un’identità alla vittima, ma ha anche messo in luce l’importanza di non arrendersi mai nella ricerca della verità, anche quando i “cold case” sembrano irrisolvibili. Il caso Sahin rappresenta un monito e una testimonianza della tenacia delle istituzioni nel perseguire la giustizia, anche a distanza di tempo e oltre i confini nazionali.
Confessione dopo anni: il mistero Sahin finalmente svelato
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