La recente pronuncia del Tribunale del Lavoro di Trento segna un punto di svolta nell’interpretazione e nell’applicazione della normativa sulle dimissioni per fatti concludenti, introdotta in Italia con la legge del 2024. Il caso, riguardante una società trentina e una sua dipendente con figli, solleva interrogativi cruciali sull’equilibrio tra la flessibilità che la nuova disciplina intendeva offrire ai datori di lavoro e la tutela dei diritti del lavoratore.La legge sulle dimissioni per fatti concludenti, concepita per accelerare la risoluzione dei rapporti di lavoro in situazioni di prolungata assenza ingiustificata del dipendente, consente al datore di lavoro di “prendere atto” delle dimissioni volontarie del lavoratore qualora questi si assenti in modo ingiustificato per un periodo minimo stabilito dal contratto collettivo nazionale di riferimento, comunque non inferiore a 15 giorni. L’obiettivo era ridurre la burocrazia e i tempi necessari per la risoluzione di tali situazioni, evitando procedure di licenziamento più complesse.Tuttavia, la sentenza del Tribunale di Trento ha evidenziato come l’applicazione automatica e immediata di questa disciplina, senza un’adeguata valutazione del contesto e della situazione personale del lavoratore, possa configurare un’elusione dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione e dalla legislazione vigente. Nel caso specifico, la società ha applicato la nuova norma dopo soli tre giorni di assenza ingiustificata, un periodo palesemente insufficiente per giustificare un atto così gravoso per la lavoratrice.Il Giudice Flaim, con una decisione che apre un importante precedente giurisprudenziale, ha ritenuto la condotta della società inesatta e dannosa, sottolineando che l’applicazione della nuova legge non può avvenire in maniera indiscriminata e senza considerare le circostanze individuali del lavoratore. La decisione ha condannato la società a reintegrare la dipendente nel posto di lavoro o, in alternativa, a corrisponderle un’indennità economica pari a cinque mensilità, oltre a coprire contributi previdenziali e spese legali.Questa pronuncia chiarisce che l’esercizio del potere di “presa d’atto” delle dimissioni per fatti concludenti non può essere utilizzato come un mero strumento per aggirare le tutele previste dalla precedente normativa, che prevede la contestazione scritta dell’assenza ingiustificata e l’applicazione di un eventuale provvedimento disciplinare.La sentenza, lungi dall’invalidare la legge sulle dimissioni per fatti concludenti, ne rafforza l’interpretazione ragionevole, invitando i datori di lavoro ad esercitare questo potere con prudenza, ponderatezza e nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede. L’episodio solleva interrogativi sulla necessità di una maggiore chiarezza e di linee guida operative per l’applicazione di questa disciplina, al fine di evitare abusi e di garantire una tutela effettiva dei diritti dei lavoratori, soprattutto in situazioni di fragilità personale ed economica. Il caso di Trento rappresenta un campanello d’allarme e un monito per l’evoluzione del diritto del lavoro in Italia.
Dimissioni per fatti concludenti: il caso Trento riscrive le regole
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