L’eco di una polemica scuote il mondo dell’alpinismo estremo: Hans Kammerlander, leggendario sciatore alpino altoatesino, contesta con veemenza la recente discesa sciistica dall’Everest compiuta dal polacco Andrzej Bargiel, un’impresa celebrata a gran voce da Red Bull e amplificata da un’imponente campagna mediatica.
La critica di Kammerlander non si limita a una mera questione di priorità, ma si estende a una più ampia riflessione sulla progressiva commercializzazione e banalizzazione dell’alpinismo, un fenomeno che, a suo dire, ne sta progressivamente erodendo l’essenza stessa.
Kammerlander, che nel 1996 si lanciò in una discesa audace lungo la parete nord-orientale dell’Everest, fino al campo base avanzato (nonostante alcune sezioni richiedessero l’uso del trekking per la scarsità di neve), si sente defraudato dall’attuale esaltazione di Bargiel.
L’impresa del polacco, realizzata senza ossigeno supplementare e documentata da un drone, viene presentata come una primato, mentre Kammerlander rivendica una precedente, seppur con modalità diverse, che a suo avviso merita un riconoscimento storico.
La disapprovazione di Kammerlander trascende la questione della precedenza: è una denuncia della spettacolarizzazione dell’alpinismo.
L’altoatesino, che in passato affrontò l’Everest in solitaria, senza l’ausilio di sherpa o ossigeno, e completando l’ascensione e la discesa in meno di 24 ore con un ristretto consumo di risorse, deplora l’iper-produzione mediatica e l’ingente apparato logistico che accompagnano le moderne imprese.
“Quando, a distanza di anni, si mette in scena una cosa che in realtà non è nemmeno paragonabile, è davvero peccato.
Così si rovina l’alpinismo, si annacqua tutto”, afferma con amarezza.
Nonostante riconosca il valore intrinseco della precedente discesa sciistica sul K2, realizzata da Bargiel nel 2018, Kammerlander esprime sorpresa e delusione nel vedere un alpinista di tale calibro coinvolto in operazioni di marketing di tale portata.
La sua critica si estende al quadro generale dell’alpinismo sull’Everest, descrivendolo come un “alpinismo da carnevale”, un fenomeno che lo porterebbe, con una logica perversa, a immaginare uno sherpa che trasporta in cima persino un neonato.
Kammerlander denuncia l’attuale afflusso di persone sull’Everest, definendolo un “affare enorme” e sottolineando come, anche dimezzando il numero di partecipanti, la situazione rimarrebbe inaccettabilmente sovraffollata.
Evidenzia come, in passato, l’accesso alle vie di salita fosse regolato da un’unica autorizzazione, un sistema che garantiva una maggiore selettività e un’esperienza più autentica.
Il suo lamento è quello di un purista, di un testimone privilegiato di un’epoca in cui l’alpinismo era sinonimo di sfida personale, autosufficienza e profondo rispetto per la montagna, valori che, a suo avviso, rischiano di essere smarriti nel clamore mediatico e nella corsa alla performance.







