Nell’archivio mnemonico di una regione alpina, emergono immagini che trascendono la mera documentazione storica, rivelando una sfida titanica, un’operazione che pare figlia di un’immaginazione surreale. Simile all’ardore visionario che animò Klaus Kinski in “Fitzcarraldo”, un’altra, meno nota, impresa si materializza attraverso fotografie ingiallite: un autobus di linea, un colosso metallico, in transito su un percorso apparentemente impossibile, trainato attraverso boschi intricati e pendii scoscesi, dal cuore della valle dell’Adige fino all’altopiano di Avelengo.La narrazione, custodita dall’Associazione Turistica Avelengo-Verano-Merano 2000, dipinge un contesto storico in cui l’infrastruttura stradale moderna era un miraggio. Un’epoca in cui la comunicazione tra Merano e Avelengo, incastonata tra le cime maestose, dipendeva da un ingegnoso, seppur rudimentale, sistema di trasporto. La strada esistente, un tracciato in quota che collegava Santa Caterina a Falzeben, alimentò la necessità di un servizio di autobus di linea. Ma il suo ingresso in servizio richiedeva un atto di audacia: il traino, letteralmente, attraverso un terreno impervio, con un dislivello che si misurava in quasi mille metri.Questo evento, più che un semplice trasporto, fu una dichiarazione di volontà, un atto di sfida alla geografia stessa. Per decenni, fino alla costruzione della strada che finalmente avrebbe unito Merano e Avelengo, l’altopiano sotto il Picco Ivigna era accessibile principalmente tramite funivia. Ricordi come quelli di Luis Reiterer, ex sindaco di Avelengo, evocano un’era in cui l’altitudine era un confine fisico e sociale.Ma l’esistenza di un percorso “stradale” era tutt’altro che scontata. Un sentiero ripido, lastricato di pietra, rappresentava l’unico collegamento praticabile per i contadini che, con l’ausilio di animali da soma, scendevano dalla montagna con legna e bestiame destinato al mercato. Un ruolo cruciale lo svolgevano le “botinnen”, figure femminili, spesso giovani donne o vedove, che con la gerla sulle spalle, trasportavano merci essenziali. Queste donne, portatrici di un’economia di sussistenza, scambiavano uova, burro e altri prodotti freschi con beni provenienti dalla città, come bottoni, caffè e zucchero, creando un flusso commerciale resiliente.L’inaugurazione della strada tra Avelengo e Falzeben nel 1933 fu un passo avanti, ma l’isolamento dell’altopiano persistette fino all’avvento di un collegamento vero e proprio con la valle dell’Adige. Un aneddoto curioso racconta come le prime Vespa venissero trasportate in teleferica, preludio all’arrivo del primo autobus di linea a 40 posti. Fu Sepp Greiter, figura chiave dell’azienda Klammsteiner, a proporre la soluzione più audace: impiegare un’escavatrice e un argano per trainare il colosso metallico lungo il tracciato preesistente.L’impresa non fu priva di ostacoli: fu necessario demolire recinzioni, abbattere muri di cinta e, in alcuni casi, ricorrere alla dinamite per superare formazioni rocciose. Metro dopo metro, giorno dopo giorno, l’autobus si fece strada, un’opera di ingegneria improvvisata che sfidava le leggi della fisica e della logistica. Dopo circa una settimana di lavoro incessante, il veicolo raggiunse Avelengo, un monumento alla determinazione umana, segnato da qualche graffio, ma integro. Un’impresa che oggi apparirebbe inaudita, soprattutto se considerati gli standard moderni in materia di sicurezza sul lavoro. Era, semplicemente, un’epoca diversa, un’epoca in cui l’ingegno umano e la volontà di superare i propri limiti erano le uniche risorse a disposizione.
L’autobus che sfidò le montagne: un’impresa audace nell’Adige.
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