Il viaggio incessante, ormai di due anni, di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Palestina, si fa eco in un appuntamento a Trieste, promosso dall’impegno studentesco.
Un evento che, fin dalla sua apertura, è stato segnato da un’inquietante presenza: quella della Digos, un monito che ha spinto Albanese a esprimere un profondo timore per le possibili ripercussioni sulle persone che si fanno portavoce di un grido di giustizia di fronte a un’atrocità che nega l’umanità.
L’invito rivolto alle forze dell’ordine non è un atto di sfida, ma un appello alla condivisione di un percorso comune, a superare la distanza tra chi vigila e chi protesta, a riconoscere in entrambe le parti un’unica, universale aspirazione alla dignità.
L’interesse suscitato dall’intervento è stato tale da richiedere l’apertura di aule aggiuntive, un chiaro segno della crescente consapevolezza e del bisogno urgente di ascolto e comprensione.
Dalla distanza, ma con un coinvolgimento emotivo profondo, Albanese descrive la realtà di Gaza: un territorio martoriato da sfollamenti ripetuti, bombardamenti incessanti e una cronica carenza di beni di prima necessità.
La speranza, incanalata negli aiuti umanitari, si scontra con la realtà di camion commerciali destinati al profitto, non alla sussistenza.
L’assenza di un cessate il fuoco aggrava ulteriormente la situazione, lasciando la popolazione intrappolata in un limbo di disperazione.
Albanese insiste: la questione palestinese non è più un problema locale, ma una causa che trascende i confini geografici e politici, un imperativo morale per l’intera comunità internazionale.
Le immagini di case ridotte in maceria sono la cruda testimonianza di una sofferenza inaudita, di una perdita totale di beni e di prospettive future.
La sua indagine si concentra sulla radice di questa tragedia, sulla comprensione dei meccanismi che la alimentano, poiché è proprio nella conoscenza che risiede la possibilità di agire.
L’argomentazione si fa particolarmente intensa quando Albanese affronta il tema del genocidio.
Non si tratta solo di una definizione legale, ma di un concetto che racchiude un intento deliberato, una volontà di annientare un gruppo etnico, religioso o culturale.
L’intento distruttivo, in sé, costituisce un crimine gravemente perseguibile.
E non meno grave è la negazione di tale crimine, che si configura come un’estensione del genocidio stesso, una forma di complicità che impedisce la giustizia e perpetua la sofferenza.
La verità, dunque, è l’arma più potente contro l’oblio e l’ingiustizia, un dovere morale nei confronti delle vittime e una garanzia per il futuro dell’umanità.
La sua presenza a Trieste non è un atto isolato, ma un tassello di un impegno costante, un faro di speranza in un mondo troppo spesso offuscato dall’odio e dall’indifferenza.








