Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per la situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, ha risposto alle critiche suscitate dalla concessione del Premio speciale della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin 2025 con un’affermazione che trascende la semplice rivendicazione: un silenzio eloquente, un godimento consapevole del riconoscimento e del suo intrinseco valore, condiviso con coloro che l’hanno attribuito.
L’assegnazione del premio, lungi dall’essere un mero onorificenza, si radica in un atto di coraggio intellettuale e di impegno morale: la denuncia, fin da subito, della situazione a Gaza e in Cisgiordania come potenziale crimine di genocidio.
Questa qualificazione, audace e contestata, riflette una profonda analisi giuridica e una rigorosa osservazione dei fatti che caratterizzano l’operato di Albanese.
Nel suo incontro con la stampa, la relatrice ha espresso rammarico per il dispiacere causato alla famiglia Luchetta, ma ha sottolineato con forza la necessità di non permettere che le polemiche offuschino la rilevanza del premio e il significato del suo lavoro.
Si tratta, infatti, di un impegno volto a illuminare una realtà complessa e spesso ignorata, un compito che si fonda sull’analisi oggettiva, sulla verifica dei fatti e sull’applicazione rigorosa del diritto internazionale.
La difficoltà, afferma Albanese, risiede non solo nella comprensione di una situazione conflittuale dalle mille sfaccettature, ma soprattutto nell’impedimento persistente a riconoscere la sofferenza del popolo palestinese.
Questa cecità, questa incapacità di percepire la realtà vissuta da un’intera popolazione, è il vero motivo di preoccupazione.
Si tratta di un’infanzia negata, un futuro compromesso, un presente segnato da traumi e privazioni.
La relatrice non indulge in accuse superficiali, ma punta il dito su una lacuna etica di portata globale: la mancanza di empatia, la difficoltà di vedere i palestinesi come vittime, come sopravvissuti a una spirale di violenza e ingiustizia.
Questa assenza di compassione, questa incapacità di immedesimarsi nel dolore altrui, costituisce una minaccia per i valori fondamentali del diritto internazionale e per la possibilità stessa di una pace duratura.
Il premio, quindi, non è solo un riconoscimento del suo lavoro, ma un monito: una chiamata alla responsabilità, un invito a superare pregiudizi e barriere mentali per guardare con occhi nuovi la realtà palestinese e agire di conseguenza.








