La scomparsa di Liliana Resinovich continua ad avvolgere la comunità diamantina in un velo di dolore e interrogativi, alimentata da un’inquietudine che si fa sentire attraverso le voci di chi l’ha conosciuta.
Lungi dall’essere un evento isolato, la vicenda si profila come il risultato di dinamiche complesse e una responsabilità diffusa, come sottolinea con veemenza Claudio Sterpin, amico di lunga data della donna.
Il sit-in spontaneo, animato da familiari e amici, riflette un’insoddisfazione profonda nei confronti delle indagini e una convinzione condivisa: la scoperta tardiva del corpo, venti giorni dopo la scomparsa, suggerisce un’occultamento intenzionale, una manipolazione delle prove che va oltre la comprensione razionale.
Sterpin, visibilmente provato, esprime il suo smarrimento e la sua rabbia, ma incanala il suo dolore in una determinazione ferrea.
La sua affermazione chiave – “C’è stata una volontà di gruppo” – introduce un concetto cruciale: la responsabilità non ricade su un singolo individuo, ma su una rete di persone coinvolte in una cospirazione silenziosa.
Questa prospettiva scardina l’idea di un singolo colpevole e apre la porta a scenari più intricati, dove il silenzio e l’omertà giocano un ruolo fondamentale.
Il sospetto che il marito, Sebastiano, sia a conoscenza di tutto è un elemento centrale nel racconto di Sterpin. Non si tratta di un’accusa superficiale, ma di un’intuizione radicata in anni di amicizia e conoscenza approfondita della coppia.
La negazione del suicidio, con la ferma convinzione che Liliana sia stata vittima di qualcosa di diverso, è il motore della sua azione.
L’annuncio di voler scrivere al Presidente della Repubblica e al Ministro della Giustizia non è un gesto impulsivo, ma un atto di disperata richiesta di verità e giustizia.
Sterpin, esprimendo un senso di esaurimento interiore, dichiara di sentirsi emotivamente distaccato dalla sua stessa esistenza (“posso dire che sono morto anch’io quattro anni fa”), come se l’ossessione per questa vicenda avesse consumato la sua stessa vitalità.
La sua battaglia non è solo per Liliana, ma per la riconquista della fiducia nelle istituzioni e per la difesa di un diritto inalienabile: il diritto alla verità, anche quando scomoda e dolorosa.
L’eco delle sue parole risuona come un appello a un risveglio collettivo, un invito a guardare oltre le apparenze e a non arrendersi di fronte all’oscurità.






