Un intricato mosaico di vite, un’eco di un amore fugace e un’eredità inattesa: una storia familiare, sospesa tra continenti e generazioni, ha trovato una sua conclusione a Padova, grazie all’impegno della trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”.
La vicenda, già al centro dell’attenzione quattro anni prima, si riapre con un appello disperato di una donna alla ricerca del figlio, nato nel 1958 a Trieste ma concepito in un’effimera relazione tra una giovane triestina e un uomo originario della Guiana, defunto in Svezia durante la pandemia di Covid e mai ufficialmente riconosciuto come padre.
La narrazione si snoda attorno a Marco, oggi sessantacinquenne, un uomo fragile assistito dai servizi sociali, la cui esistenza, apparentemente tranquilla, è stata improvvisamente sconvolta dalla rivelazione delle sue origini.
La sua ricerca, inizialmente geografica, si è trasformata in un viaggio interiore, un tentativo di comprendere un passato a lungo rimasto nell’ombra.
Il suo nome è diventato un simbolo di un’identità frammentata, di un’appartenenza sospesa tra due culture e due mondi.
La sua “nascita”, come lui stesso la descrive, è un evento collocato in una Londra vibrante e dinamica, un contrasto con la sua infanzia trascorsa nella quiete di Trieste.
La sua memoria d’infanzia è costellata di domande sull’origine delle sue fattezze, domande che lo hanno portato a formulare una risposta arguta e rivelatrice: “Stampato a Londra e nato in Italia”.
Questa frase, apparentemente innocua, racchiude in sé la complessità della sua identità, un ibrido culturale che lo ha reso diverso, un osservatore attento e curioso del mondo che lo circonda.
L’interesse per l’ignoto, la sete di conoscenza, lo hanno spinto a coltivare una passione per lo studio, un’attività che permea ogni aspetto della sua esistenza.
La sua dichiarazione, “Sono nato geneticamente studente e rimarrò tale”, riflette un profondo desiderio di comprendere il mondo, di decifrare i suoi enigmi, di trovare un senso a tutto ciò che lo circonda.
La sua solitudine non è percepita come una mancanza, ma come un’opportunità per dedicarsi alla ricerca e alla contemplazione.
La possibilità di ereditare una somma di denaro dalla Svezia, terra di origine del padre sconosciuto, non suscita in lui particolari aspettative.
Al contrario, la sua risposta è pragmatica e filosofica: “Non ho avuto nessun danno, sto benissimo in solitudine”.
La sua serenità sembra derivare da una profonda accettazione di sé e del proprio destino, una capacità di trovare significato nella semplicità dell’esistenza.
La vicenda, al di là della ricerca di un figlio perduto e della trasmissione di un’eredità, si rivela come una riflessione universale sull’identità, sulla famiglia e sulla ricerca di un posto nel mondo.
Un viaggio alla scoperta delle proprie radici, un percorso di crescita personale e un invito a guardare oltre le apparenze.







