Martina Oppelli, nel suo gesto estremo e irrevocabile verso il suicidio assistito in Svizzera, ha lasciato un’eredità complessa, una denuncia formale che solleva interrogativi cruciali sul diritto alla fine della vita e sui limiti dell’assistenza sanitaria.
Prima di compiere l’atto finale, la giovane ha affidato alla sua procuratrice speciale, l’avvocata Filomena Gallo, figura di spicco dell’associazione Luca Coscioni, una denuncia-querela rivolta all’Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina.
L’annuncio è stato diffuso a Trieste da Marco Cappato, tesoriere dell’associazione, in una conferenza stampa carica di significato.
La denuncia, profondamente significativa, non si limita a contestare la negazione dell’accesso al suicidio medicalmente assistito, ma lo inquadra in un contesto di presunti abusi procedurali e di sofferenza protratta.
Martina Oppelli ha formalmente accusato l’azienda sanitaria di due reati di particolare gravità: rifiuto di atti d’ufficio, che implica una negligenza nell’adempimento di obblighi legali e procedurali, e, in modo più allarmante, tortura.
Quest’ultima accusa, di per sé, rappresenta un punto di non ritorno nell’analisi del caso, suggerendo un trattamento che, pur nell’ambito dell’assistenza sanitaria, ha causato sofferenze intollerabili, equiparabili a una forma di abuso.
La scelta di contestare il reato di tortura non è casuale.
Essa mira a mettere in luce la profonda inadeguatezza del sistema di valutazione e di supporto per i pazienti affetti da patologie irreversibili e in condizioni di sofferenza insopportabile.
L’associazione Luca Coscioni, da sempre impegnata nella difesa del diritto alla libertà di scelta e alla dignità della persona, intende con questa azione legale stimolare un dibattito pubblico ampio e approfondito sulla legislazione vigente, sui criteri di accesso al suicidio assistito e, soprattutto, sulla necessità di garantire un’assistenza palliativa adeguata e personalizzata per tutti i pazienti che ne hanno bisogno.
La denuncia di Martina Oppelli apre una breccia nella resistenza culturale e legale che ancora circonda il tema della fine della vita.
Essa pone l’accento sulla responsabilità del sistema sanitario di rispondere in modo umano e compassionevole alla richiesta di aiuto di chi si trova ad affrontare una sofferenza ineluttabile.
La complessità del caso Oppelli trascende la mera questione del suicidio assistito: è un invito a ripensare il ruolo della medicina, il rapporto tra stato e individuo, e il significato stesso di dignità umana di fronte alla morte.
L’eredità di Martina Oppelli, quindi, si proietta verso un futuro in cui il diritto alla fine della vita possa essere esercitato con consapevolezza, dignità e, soprattutto, senza sofferenze evitabili.