Il grido si alza, lacerante, come una crepa nell’indifferenza.
È il grido di Martina Oppelli, una voce filtrata attraverso comandi vocali, siglata “Un’Incurabile”, che emerge da Trieste per squarciare il velo delle convenzioni.
Non è un semplice lamento, ma una denuncia profonda, un’implorazione di comprensione rivolta a una società che fatica a percepire l’abisso della sua esistenza.
Martina, immobilizzata dalla sclerosi multipla, vive una quotidianità di dipendenza radicale.
La sua dignità, un tempo saldo punto di riferimento, si frantuma sotto il peso di necessità corporali ineludibili, gestite dall’assistenza di un amico, sostituto temporaneo di badanti provvisorie, mentre la carrozzina basculante, su misura per il suo corpo, diventa una costante, tangibile barriera tra lei e il mondo.
La sua lettera, una risposta a un’inutile, dolorosa esortazione a partecipare a un pellegrinaggio a Medjugorje, rivela una verità scomoda: la fede, per lei, non è consolazione, ma ulteriore agonia.
I ricordi dei viaggi a Lourdes, segnati da spasmi brutali, da contrazioni elettriche che la irrigidivano in una morsa terrificante, la riportano all’orrore fisico.
Anche un tragitto verso l’ospedale di Cattinara si trasforma in una tortura, un amplificatore di dolore, un’eco amplificata nel metallo della vettura.
Nonostante ciò, Martina non recrimina.
Riconosce il debito verso il Comune di Trieste e la Regione Fvg, elogiando il livello assistenziale che le ha permesso di preservare un barlume di dignità.
Ma questo non estingue il desiderio, l’urgente bisogno di una via d’uscita da una condizione che la imprigiona, privandola di lavoro, di futuro, di ogni prospettiva di guarigione.
Il suo lamento si protrae, un appello disperato per una maggiore sensibilità verso le esigenze dei disabili, un’esortazione perché le compagnie aeree riservino spazi che permettano loro di viaggiare comodamente sulla propria carrozzina, senza il trauma dello sradicamento forzato.
La negazione del suicidio assistito, ripetuta e inesorabile, la confina in una spirale di sofferenza, che contrasta con la recente approvazione della legge in Slovenia, un faro di speranza che illumina la sua disperazione.
La vicenda di Martina Oppelli è un monito, un’istanza di profonda riflessione sull’autodeterminazione, sulla compassione, sul diritto di scegliere, anche quando quella scelta significa liberarsi dal peso insopportabile della propria esistenza.
È il grido di una donna che chiede di essere ascoltata, non con pietà, ma con rispetto e comprensione.
È il grido di una donna che, in fin dei conti, chiede di essere umana.