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martedì 4 Novembre 2025

Pasolini e Vecchioni: litanie, fratture e la speranza di un nuovo inizio.

Il pensiero di Pier Paolo Pasolini, come lo restituisce la memoria di Roberto Vecchioni, si configura come un’inquietante litania del Novecento, un’eco di disillusione che risuona ancora oggi con inesauribile potenza.

Vecchioni, in un’analisi penetrante, ne delinea la figura non come un semplice intellettuale, ma come un prisma complesso, capace di rifrangere le contraddizioni di un’epoca in un caleidoscopio di espressioni artistiche.
Pasolini fu un gigante multiforme, un navigatore solitario che esplorò i confini del romanzo, del racconto, del saggio polemico, del cinema, del teatro e della poesia, spaziando dal friulano al linguaggio colto con una libertà e una maestria raramente incontrate.
Al centro del suo pensiero, un’ossessiva ricerca di un principio unificatore, un *ubicumque* universale, sempre più sfuggente in un mondo lacerato dalla frattura sempre più ampia tra la natura primordiale e la cultura borghese, sterilizzata e omologata.
Questa frattura non è percepita come un semplice disaccordo, ma come un baratro esistenziale che minaccia la stessa civiltà.
La sua visione non è quella di un semplice critico, bensì di un profeta che intuisce la catastrofe ineluttabile.

Il *Poesia in forma di rosa*, con la sua cruda introspezione e la sua corale di sofferenze, si rivela come un doloroso bilancio, un’autopsia spietata dell’animo umano e del suo rapporto con il progresso, percepito come un percorso a senso unico verso la decadenza.

Questa riflessione non è condannatoria nei termini di un rifiuto assoluto, ma piuttosto un’amara constatazione, un lamento per ciò che si sta perdendo.
Nel profondo della *Supplica a mia madre*, Vecchioni individua un nucleo cruciale del pensiero pasoliniano: l’immagine della maternità come archetipo di un amore incondizionato, una forza primordiale che trascende le divisioni, che dissolve le barriere sociali e che annulla le distanze.
Questa maternità non è semplicemente biologica, ma simboleggia una legge universale di affetto, un’armonia perduta che potrebbe, forse, fornire una via d’uscita dalla spirale autodistruttiva.
È un desiderio di ritorno a uno stato di purezza, a un’età dell’innocenza che potrebbe preludere a un reset, a un nuovo inizio che, pur evocando un’impossibile ripartenza dalla preistoria, cela in sé la speranza di un’umanità diversa, più consapevole e più legata alle proprie radici.
Un anelito, quindi, non tanto alla preistoria in senso stretto, quanto a una riscoperta dei valori primari che potrebbero orientare un futuro più sostenibile e meno alienante.

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