Il 1° settembre, data che evoca il tragico inizio della Seconda Guerra Mondiale, ha visto a Trieste un significativo atto di dissenso promosso dall’Unione Sindacale di Base (USB).
Al varco 4 del porto, fulcro di una complessa rete logistica e commerciale, si è levata una voce chiara e decisa: quella dei lavoratori che rifiutano di essere ingranaggi di macchine belliche.
Lungi dall’essere una mera ricorrenza formale, la mobilitazione dell’USB si configura come un gesto politico di profonda risonanza, alimentato da una rinnovata urgenza globale.
Sebbene l’impegno a favore della pace sia un tratto distintivo delle iniziative sindacali in questa data, l’attuale contesto internazionale, segnato dal conflitto in Palestina e dalla devastazione che colpisce Gaza, conferisce all’azione un peso emotivo e morale amplificato.
Alessandro Perrone, esponente di USB Trieste, ha esplicitato il significato profondo della protesta.
Non si tratta semplicemente di un richiamo alla pace, ma di una presa di posizione netta contro l’utilizzo di infrastrutture civili, come il porto di Trieste e Monfalcone, a fini militari.
Questa scelta strategica, evidenziata dalla designazione dei porti come nodi logistici per il trasporto di materiale bellico, rappresenta una profonda contraddizione con i valori di pace e solidarietà che il sindacato intende promuovere.
L’azione del 1° settembre, quindi, non si limita a denunciare la guerra in sé, ma si rivolge anche a una riflessione critica sul ruolo del lavoro e delle infrastrutture nella sua perpetuazione.
I lavoratori, attraverso il loro impegno quotidiano, possono inavvertitamente contribuire a sostenere conflitti armati; la presa di coscienza di questa dinamica, e la conseguente volontà di opporsi ad essa, costituiscono un passo fondamentale verso un futuro più pacifico.
La manifestazione a Trieste, con i suoi striscioni e i suoi slogan, si erge come un faro di speranza per le popolazioni martoriate, in particolare per il popolo palestinese.
Rappresenta un atto di solidarietà concreta, un rifiuto di complicità con la violenza e un appello a una nuova etica del lavoro, improntata alla responsabilità sociale e alla difesa dei diritti umani.
La protesta, in definitiva, non è solo un lamento contro la guerra, ma una proposta di un mondo in cui la prosperità economica non sia costruita sulle macerie della pace.