Negli Stati Uniti, tra gli anni ’60 e i ’90, un’ombra oscura si allungò sul paese: l’emersione di un numero spaventosamente elevato di serial killer, stimato in oltre duemila.
Questa cifra, pur elevata, assume una connotazione particolarmente inquietante se contestualizzata nel complesso panorama socio-culturale americano, segnato da una storia di violenza endemica e da una crescente fragilità sociale.
Il giornalista Stefano Nazzi, con il suo volume “Predatori” (Mondadori), offre un’esplorazione profonda e sfaccettata di questo fenomeno, delineando non solo i ritratti dei carnefici, ma anche le figure chiave che, attraverso la ricerca e l’analisi, hanno tentato di comprenderli e, in parte, arginarne l’azione.
L’analisi di Nazzi suggerisce che l’esplosione di questo crimine seriale non può essere compresa isolatamente.
La guerra del Vietnam, con il suo impatto traumatizzante e la sua eco di violenza che irruppe nella vita quotidiana, contribuì a esacerbare tensioni preesistenti.
Parallelamente, la crescente diffusione di una pornografia sempre più esplicita e sessista, alimentando una cultura della mercificazione e della disumanizzazione femminile, creò un terreno fertile per l’emergere di comportamenti devianti e violenti.
Storie come quella di Jeremy “Mangiafegato” – un soprannome che ne rivela l’orribile inclinazione – John Wayne Gacy, il clown dalle feste per bambini che nascondeva una mostruosa doppia vita, o quella di Edmund Kemper, un gigante apparentemente mite che dialogava con intellettuali e poi si abbandonava a efferate sevizioni, incarnano l’orrore di un’epoca.
Questi non sono semplici assassini; sono sintomi di una malattia sociale più profonda, un’espressione di disperazione e di perdita di controllo.
Un episodio emblematico, il blackout di New York del 1977, simboleggia il collasso dell’ordine sociale e l’esplosione della violenza repressa.
L’oscurità spalancò le porte a un caos generalizzato, un presagio della barbarie che si stava manifestando in forma di crimini seriali.
Ma la risposta non mancò.
Figure chiave come gli agenti dell’FBI, Roberto Ressler e John Douglas, con il supporto di psicologi e studiosi, diedero vita a un approccio innovativo nell’indagine criminale.
L’analisi delle scene del crimine, la ricostruzione delle dinamiche psicologiche e la profilazione dei serial killer diventarono strumenti essenziali per comprendere e, in alcuni casi, prevenire i loro atti.
Questa rivoluzione metodologica, basata su una combinazione di intuizione clinica e rigore scientifico, ha permesso di fatto contribuito a ridurre significativamente il numero di questi crimini.
Tuttavia, Nazzi sottolinea con lucidità che la battaglia contro la violenza non è vinta.
La prevenzione di atti di violenza di massa, come le sparatorie in luoghi pubblici, in contesti universitari o in altri luoghi di aggregazione, rappresenta una sfida ancora più complessa, che elude le strategie di profilazione e di intervento mirate.
La comprensione delle dinamiche psicologiche che spingono individui a commettere tali atti rimane un campo di ricerca aperto, un monito costante alla necessità di un impegno continuo per la sicurezza e il benessere della società.








