mercoledì 22 Ottobre 2025
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Geopolitica fragile: guerre, Trump e il rischio escalation.

L’assenza di un conflitto nucleare non garantisce un’assenza di violenza.
La persistenza di guerre convenzionali, con il conseguente tributo di vite umane, rimane una realtà ineludibile.

Riflettendo su un’analisi perspicace di Henry Kissinger, il professor Giulio Sapelli esprime un profondo apprensione riguardo alla fragilità del panorama geopolitico globale.

La sua preoccupazione si concentra sull’aggressività russa, alimentata da un senso di insicurezza, che potrebbe manifestarsi in ulteriori provocazioni nei confronti dei Paesi baltici, aprendo la strada a errori di calcolo con conseguenze imprevedibili.
La speranza in un prevalere del buon senso, pur esistente, deve confrontarsi con condizioni intrinseche che rendono il rischio di escalation palpabile.

In questo contesto di crescente tensione, emerge la figura controversa di Donald Trump, non come un diplomatico, ma come un catalizzatore di conflitti.

Le sue iniziative, spesso percepite come impulsive e incomprensibili – si pensi all’episodio della Groenlandia, interpretato come un gesto provocatorio verso la Russia, o all’approfondimento dei rapporti con l’India, un Paese storicamente legato a Mosca – rischiano di destabilizzare equilibri precari.
La situazione indiana, in particolare, potrebbe innescare una spirale di instabilità regionale, con il Pakistan che cerca di rafforzare la propria posizione attraverso accordi strategici con l’Arabia Saudita, incrementando la complessità e il potenziale esplosivo del conflitto.

L’Europa, in questo scenario, appare assente, incapace di esercitare un ruolo di mediazione o di stabilizzazione.
La crisi di Gaza, alimentata da narrazioni spesso distorte e da un’informazione che oscilla tra l’ignoranza e la malafede, ne è un esempio lampante.
L’assenza di reazioni, o meglio, la silenziosità di Abu Mazen di fronte alle ultime azioni militari israeliane, amplifica ulteriormente la sensazione di un vuoto di leadership e di responsabilità.

L’azione di Trump, in questo quadro, può essere interpretata come un tentativo, seppur maldestro e inadeguato, di ristabilire una forma centralizzata di capitalismo globale.

Tuttavia, la sua incapacità di gestire un compito di tale portata rivela una più ampia crisi di leadership negli Stati Uniti, acuita da un declino nella capacità di formare figure di spicco.

Il fenomeno della “cultura woke”, percepita come un fattore destabilizzante, viene accusata di aver contribuito a erodere i valori e le competenze necessarie per affrontare le sfide del mondo contemporaneo, lasciando un vuoto di competenze e visione strategica che rende più difficile la gestione di un mondo sempre più interconnesso e complesso.

La mancanza di figure di riferimento capaci di interpretare e guidare il cambiamento, unita a dinamiche interne divisive, rischia di compromettere la capacità americana di esercitare un ruolo di leadership a livello globale, con ripercussioni imprevedibili per l’ordine internazionale.

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