“Torino e l’enogastronomia: tra tradizione e sfide del futuro”

Date:

17 febbraio 2025 – 11:45

La cerimonia di premiazione dei migliori 50 ristoranti, programmata per il 19 giugno del 2025, doveva rappresentare il momento culminante per la consacrazione di Torino come capitale dell’enogastronomia. Tuttavia, qualcosa sembra incrinarsi. La domanda che sorge spontanea è se la città creda veramente nell’alta ristorazione e se sia in grado di sostenerla. Inoltre, ci si interroga sul destino delle proprietà, delle catene e degli accorpamenti che stanno prendendo forma sotto i nostri occhi. Prima di cercare risposte a questi interrogativi, è importante fare una premessa sul rapporto che Torino ha con il cibo.Gli abitanti della città manifestano un atteggiamento che potremmo definire calvinista nei confronti del cibo. La borghesia torinese non mostra particolare interesse per i ristoranti stellati e costosi: spendere più di 50 o massimo 60 euro per un pasto viene considerato un’eccessiva ostentazione, meglio lasciata ai milanesi. Prevale l’idea della tradizione piemontese: quando si esce a mangiare non si cerca l’innovazione ma piuttosto i classici come gli agnolotti, il vitello tonnato e la finanziera. La qualità del cibo passa in secondo piano rispetto al prezzo e alla quantità.D’altra parte, sono pochi gli imprenditori disposti a investire in progetti legati all’alta ristorazione nella città. Non è solo una questione economica: le esperienze altalenanti nel settore da parte delle istituzioni bancarie testimoniano la complessità del contesto locale. Alcune eccezioni notevoli includono Lavazza con il progetto Condividere, supportato da esperti gourmet come Giorgio Grigliatti e Bob Noto, capaci di creare ponti con figure autorevoli come Ferran Adria.Alcuni imprenditori come Denegri hanno dimostrato abilità nel salvataggio di locali storici dall’oblio finanziario e nell’elevare la loro reputazione gastronomica grazie a collaborazioni vincenti come quella con Baronetto al Del Cambio. Ci sono anche casi come quello dei Lera che hanno affidato il proprio Carignano a Davide Scabin ottenendo ottimi risultati.Per valutare gli effetti dei recenti accorpamenti nel settore enogastronomico torinese sarà necessario attendere ancora del tempo: alcune fusioni sembrano tendere verso una standardizzazione che mette a repentaglio l’identità di locali storici come Platti o Norman, mentre altre sembrano puntare sulla valorizzazione delle peculiarità individuali dei vari ristoranti, ad esempio nel caso della Torino Society.Nonostante alcune criticità evidenziate sopra, emergono segnali positivi dalla nascita di nuovi locali come Muro in barriera di Milano, simbolo di una nuova concezione bistronomica torinese orientata verso l’esplorazione di nuove strade culinarie oltre alla tradizione consolidata della cucina piemontese.Un punto critico rimane rappresentato dall’assenza significativa dell’impegno delle istituzioni pubbliche nel promuovere Torino come capitale enogastronomica; se davvero desiderano raggiungere questo obiettivo dovrebbero prendere spunto da modelli virtuosi internazionali come quello danese.

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