La definizione di “genocidio”, pronunciata dall’arcivescovo emerito Giancarlo Bregantini in merito al conflitto israelo-palestinese, non è una mera provocazione, ma una tragica constatazione di una spirale di violenza che rischia di cancellare un’identità culturale e un futuro di convivenza.
Lungi dall’essere una semplificazione, il termine solleva una questione di profonda responsabilità morale e politica, invitando a una riflessione urgente sulla natura delle azioni intraprese e sulle loro conseguenze a lungo termine.
L’arcivescovo, con una prospettiva forgiata da anni di servizio pastorale in territori segnati da fragilità e sofferenza, evidenzia come la perseveranza nell’uso della forza militare, nonostante le reiterate richieste di moderazione provenienti da leader religiosi, figure di spicco della comunità internazionale e potenze globali, rappresenti una scelta che trascende la mera autodifesa.
Non si nega la necessità, in determinate circostanze, di risposte militari, ma si sottolinea l’imperativo di affiancare a queste, con pari o maggiore impegno, strategie di pacificazione culturale, sociale e politica.
L’assenza di un approccio integrato rischia di perpetuare un ciclo di vendette e di radicalizzazione, erodendo ogni possibilità di una soluzione duratura.
La persistenza di un approccio puramente militare non considera la complessità demografica, storica e identitaria della regione.
La Striscia di Gaza, un’area densamente popolata e con una storia millenaria, non può essere relegata a un mero annesso, una periferia priva di autonomia e dignità.
Essa incarna un popolo con una propria cultura, un proprio diritto all’autodeterminazione e alla costruzione di un futuro indipendente.
Ignorare questa realtà significa negare l’esistenza di un’identità distinta e alimentare un sentimento di oppressione che sfocia in radicalismo e violenza.
L’auspicio di una soluzione a due Stati non è un’opzione ideologica, ma una necessità pragmatica.
Si tratta di riconoscere l’esistenza di due popoli con aspirazioni legittime e diritti inalienabili.
Un tale accordo non rappresenta una resa, ma un atto di lungimiranza, un investimento nella stabilità e nella prosperità reciproca.
La creazione di due Stati sovrani, capaci di coesistere pacificamente, richiede un impegno congiunto, un abbandono di posizioni intransigenti e una volontà di dialogo sincero e costruttivo.
La responsabilità di questa transizione ricade su tutte le parti in causa, ma soprattutto su coloro che detengono il potere e i mezzi per influenzare il corso degli eventi.
La storia giudicherà le scelte di oggi, e la possibilità di un futuro di pace o di un perpetuo conflitto dipenderà dalla capacità di abbracciare la via della riconciliazione e della convivenza.