Un’eco di impotenza, una risonanza emotiva che evoca i confini più sfumati tra il ricordo infantile e l’angoscia adulta, pervade la visione di “Su cane est su miu”, cortometraggio di Salvatore Mereu in concorso a Locarno.
Non è semplice imbarazzo quello che assale lo spettatore, ma una forma più acuta, quasi fisica, di partecipazione all’umiliazione altrui, un’esperienza che gli inglesi definirebbero *second-hand embarrassment*.
Ci si immedesima nel ragazzino, vittima silenziosa di una vendetta crudele, fino a condividere la sua vergogna e la sua frustrazione.
Il racconto, ispirato a una novella di Salvatore Cambosu del 1946 e ambientato nell’entroterra sardo degli anni Settanta, si snoda attorno a una catena di responsabilità che culmina nell’atto di violenza di un adolescente nei confronti di un compagno più piccolo.
La narrazione, interamente in sardo, aggiunge un ulteriore strato di autenticità e immediatezza, radicando la storia in un contesto culturale specifico.
La vicenda, apparentemente semplice – un bambino affida delle tortore a un altro, che a sua volta le affida a un terzo, fino a quando un cane le disperde – si rivela una metafora potente delle dinamiche del potere, della colpa e della mancata assunzione di responsabilità.
La colpa ricade sul bambino più piccolo, costretto a mentire e ad accettare una punizione ingiusta, mentre l’aggressore rimane impunito.
La sua violenza, un’esplosione di rabbia e frustrazione, trova terreno fertile in un ambiente che sembra anestetizzato alla sofferenza altrui.
Mereu sottolinea come la scelta di un racconto sia spesso guidata da un impulso irrazionale, una sorta di richiamo emotivo che si manifesta solo a posteriori.
“Su cane est su miu” è un’indagine sulla fragilità dell’infanzia, un rifiuto della narrazione edulcorata che la dipinge come un’età dell’oro.
Il regista ha voluto rappresentare la realtà, con le sue ombre e le sue contraddizioni, denunciando una progressiva perdita di sensibilità, un’incuriosimento per la violenza che si manifesta anche tra i giovani.
Si tratta, in definitiva, di un racconto di formazione, un percorso di presa di coscienza che, forse, intravvede anche il carnefice.
La scelta di utilizzare attori non professionisti, selezionati tra le scuole delle comunità rurali, è un elemento cruciale dell’estetica del film.
Questi ragazzi, autentici e genuini, incarnano la semplicità e la vulnerabilità dei personaggi, conferendo al racconto una forza emotiva senza precedenti.
La loro spontaneità, la loro capacità di esprimere la paura e la vergogna con un linguaggio del corpo puro e immediato, sono la vera anima del film.
La regia si è posta una sfida: trovare volti che fossero specchio delle vite che rappresentavano, un’impresa ardua che ha richiesto una ricerca attenta e paziente.
L’incredibile talento di Giaime Mulas, il giovane attore che interpreta il ruolo del bambino vittima della violenza, ha poi colmato la possibilità che il film non avesse il coraggio di piangere.
La sua performance, intensa e commovente, è la chiave di volta di un’opera che invita a riflettere sulla natura umana, sulla responsabilità e sulla necessità di proteggere la fragilità dell’infanzia.