lunedì 25 Agosto 2025
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Calore, Solitudine e Figure di Carta: un Futuro Inquietante

In un futuro prossimo, gravido di calore inesorabile, dove le temperature notturne si aggirano pericolosamente attorno ai cinquantagradi, l’intreccio delle relazioni umane si è diradato fino a quasi scomparire.

L’isolamento sociale è diventato una condizione diffusa, alimentata da un’omologazione emotiva e da una profonda crisi di fiducia reciproca.

La risposta a questo vuoto esistenziale si manifesta attraverso la proliferazione di agenzie specializzate nel noleggio di “persone fittizie”, individui pagati per simulare legami affettivi, amicizie e persino relazioni familiari.
“Don’t Let the Sun” di Jacqueline Zünd, coproduzione italo-svizzera premiata a Locarno, non dipinge una distopia fantascientifica, ma piuttosto riflette una realtà già in gestazione in diverse aree del globo.
Il film segue il percorso di Jonah (Levan Gelbakhiani), un uomo di ventotto anni che lavora per una di queste agenzie.
Il suo compito è fornire una facciata di normalità a chi desidera colmare un vuoto emotivo.

In particolare, si ritrova a impersonare il ruolo di padre per Nika (Maria Pia Pepe), una bambina cresciuta da una madre single (Agnese Claisse) che ha scelto di affrontare la genitorialità da sola.

In questo nuovo ruolo, Jonah intraprende un percorso di scoperta interiore, rivelando aspetti inaspettati della propria identità.

L’idea del film germogliò durante un progetto in Giappone, dove Zünd si imbatté in un’azienda che offriva la possibilità di “affittare” qualsiasi tipo di contatto sociale.

Questo spunto la portò a riflettere sulla natura mutevole delle relazioni umane, sull’impatto del contesto esterno e sulla crescente disconnessione emotiva che caratterizza la società contemporanea.
La sceneggiatura, scritta a quattro mani con Arne Kohlweyer, affronta quindi il tema dell’alienazione e della solitudine, inquadrandolo all’interno di una cornice più ampia e urgente: il cambiamento climatico, percepito non solo come una crisi ambientale, ma anche come un acceleratore della crisi esistenziale.
Il film si svolge in un mondo notturno, rifugio obbligato dal calore soffocante del giorno.

L’architettura brutalista, con la sua monumentalità fredda e impersonale, fa da sfondo e amplifica il senso di disagio e precarietà che pervade i personaggi.
Originariamente, la regista aveva pensato di girare a San Paolo, Brasile, una città esemplare per l’architettura brutalista, ma la complessità della coproduzione e le problematiche politiche hanno reso necessario optare per una soluzione ibrida: riprese aeree effettuate in Brasile, prive della presenza umana grazie a effetti speciali, e set realizzati a Milano e Genova, in particolare nei complessi abitativi di Monte Amiata e nelle zone chiamate “Lavatrici”, luoghi simbolici di marginalità e di vita comunitaria frantumata.

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