In un futuro prossimo, soffocato da ondate di calore implacabili che trasformano le notti in inferi di quasi cinquanta gradi, l’intimità umana si sgretola, lasciando al suo posto un vuoto colmato da surrogati commerciali.
“Don’t Let the Sun” di Jacqueline Zünd, co-produzione italo-svizzera premiata a Locarno, non dipinge un futuro distopico, ma proietta una realtà tangibile, un’estrapolazione inquietante di dinamiche già in atto sul nostro pianeta.
Il film ci introduce a Jonah (Levan Gelbakhiani), un giovane uomo che opera nel mercato emergente della “relazione umana su richiesta”.
La sua professione lo vede interpretare ruoli sociali, simulando legami affettivi per chi li desidera, ma non li possiede.
L’assegnazione di Nika (Maria Pia Pepe), una bambina cresciuta senza una figura paterna – scelta deliberatamente dalla madre (Agnese Claisse) – lo costringe a confrontarsi con la sua stessa umanità, aprendo in lui un’inaspettata capacità di connessione.
L’ispirazione per la storia germogliò durante un progetto in Giappone, dove l’esistenza di agenzie specializzate nell’affitto di “contatti sociali” rivelò una profonda riflessione sulle trasformazioni delle relazioni umane nell’era contemporanea.
Zünd, insieme ad Arne Kohlweyer, ha quindi tessuto una narrazione che esplora l’alienazione e la solitudine, ancorandole all’emergenza climatica, un motore silenzioso di disumanizzazione.
Il film evoca un mondo notturno, dove la sopravvivenza fisica dipende dalla fuga dal calore insopportabile del giorno.
L’architettura brutalista, dominante nel paesaggio urbano, diviene metafora della fragilità e della vulnerabilità dell’individuo, un riflesso dell’aridità emotiva che permea la società.
L’iniziale ambizione di girare a San Paolo, Brasile – una città iconica per la sua architettura brutalista – si è scontrata con difficoltà logistiche e politiche, spingendo la troupe a optare per riprese aeree in Brasile, cancellando digitalmente le presenze umane dalle strade, e a ricostruire gran parte delle ambientazioni a Milano e Genova, sfruttando la desolazione e la monumentalità dei complessi abitativi di Monte Amiata e delle “Lavatrici”.
“Don’t Let the Sun” è più di un film; è un sismografo emotivo che registra le vibrazioni di un mondo in crisi, un monito sulla progressiva disconnessione tra gli esseri umani e un appello a riscoprire il valore inestimabile dell’autentico contatto umano, prima che il sole lo renda irraggiungibile.