Il 25 settembre 2005, Ferrara si svegliò sotto il peso di un lutto improvviso e incomprensibile.
Federico Aldrovandi, diciotto anni appena compiuti, giaceva senza vita sull’asfalto di via Ippodromo, il corpo segnato da traumi indicibili.
La sua immagine, impressa a fuoco nella memoria collettiva, trascende la tragicità del singolo evento, divenendo simbolo di un fallimento sistemico nel rapporto tra potere istituzionale e cittadino.
Federico era un ragazzo come tanti, un adolescente in equilibrio tra studio, passione per lo sport (calcio e karate) e la musica, con il clarinetto come strumento di espressione artistica e la Spal come fede calcistica.
La notte del 24 settembre, una serata dedicata alla musica reggae a Bologna, si concluse con una passeggiata solitaria verso casa.
Nueve telefonate ai suoi amici, rimaste inascoltate nel silenzio della madrugada, presagiscono un destino ineluttabile.
Una chiamata anonima, quella di una residente che segnalava urla e gesti violenti, innesca una spirale di eventi catastrofici.
Sul luogo del ritrovamento, due volanti della polizia: una con Enzo Pontani e Luca Pollastri, l’altra con Monica Segatto e Paolo Forlani.
La ricostruzione degli eventi successivi, fatta di omissioni, depistaggi e reticenze, rivela un quadro allarmante.
L’arrivo dell’ambulanza, con i paramedici che constatano l’immobilità del corpo e la presenza di manette, solleva interrogativi inquietanti.
La versione ufficiale, che attribuisce la morte a un malore dovuto all’assunzione di alcol e droghe, si rivelerà presto un tentativo di occultare la verità.
La svolta cruciale nella vicenda arriva con la denuncia pubblica, un atto di coraggio e di disperazione, portato avanti dalla madre di Federico, Patrizia Moretti, attraverso la creazione di un blog.
La foto, diventata icona universale di ingiustizia, mostra il volto tumefatto di Federico, le ferite profonde, la macchia di sangue su un lenzuolo bianco, un’immagine che sfida ogni tentativo di edulcorazione.
Il lungo e complesso iter giudiziario, costellato di errori procedurali e di revisioni, culmina nel 2009 con la condanna a tre anni e sei mesi per omicidio colposo e riconoscimento di eccesso colposo nell’uso delle armi per i quattro poliziotti coinvolti.
La sentenza viene confermata in appello e a Cassazione.
Successivamente, un secondo processo, il cosiddetto “Aldrovandi bis”, porta alla condanna di altri tre agenti per favoreggiamento e omissione di atti d’ufficio.
La vicenda Aldrovandi non è solo la storia di un ragazzo morto prematuramente.
È la denuncia di un sistema che, a volte, per difendersi, sacrifica la verità e la dignità umana.
È un monito costante sulla necessità di garantire trasparenza, responsabilità e rispetto dei diritti fondamentali, anche quando si tratta di far luce sulle azioni delle forze dell’ordine.
La memoria di Federico Aldrovandi continua a vivere, alimentata dalla sua immagine e dal grido di giustizia che risuona ancora oggi.