sabato 27 Settembre 2025
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Venezia

Israele alla Biennale: polemiche e boicottaggi accesi

Il Ministero israeliano della Cultura ha lanciato un bando per selezionare gli artisti e i curatori che rappresenteranno Israele alla 61ª Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia nel 2026.

L’assegnazione di uno spazio all’Arsenale, un’area storica della Biennale, contrasta con la contemporanea inaccessibilità del padiglione permanente situato ai Giardini, attualmente in fase di ristrutturazione.

Questa decisione, denunciata con forza dal collettivo Art Not Genocide Alliance (ANGA), riaccende il dibattito acceso durante l’edizione precedente, quando una precedente ondata di proteste aveva portato alla chiusura del padiglione e all’affissione di un cartello che condizionava la sua riapertura alla liberazione degli ostaggi.

L’interpretazione di questa situazione come “arte” da parte del presidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco, aveva suscitato ampi interrogativi sull’etica istituzionale e il ruolo dell’arte come specchio e, potenzialmente, complice di eventi geopolitici complessi.

La decisione della Biennale, definita da ANGA “scioccante”, si manifesta come una contraddizione, un atto che elude l’impatto della precedente azione di boicottaggio, che aveva messo in discussione la legittimità della partecipazione israeliana.

In un contesto segnato da oltre settecento giorni di conflitto, con le sue conseguenze devastanti e i suoi impatti umanitari, e in un quadro storico che comprende settantacinque anni di occupazione, politiche discriminatorie e sfollamenti forzati, la concessione di una piattaforma artistica a uno Stato accusato di tali violazioni dei diritti umani solleva questioni di responsabilità morale e di impatto sociale.

ANGA non si limita a criticare la decisione, ma ne richiede l’abrogazione immediata e totale, escludendo formalmente Israele dalla Biennale.
La minaccia di un boicottaggio generalizzato, coinvolgendo artisti e pubblico, sottolinea la gravità della situazione e l’urgenza di un ripensamento radicale delle politiche della Biennale.

Questo atto di protesta si configura come una forma di resistenza culturale, volto a denunciare l’appropriazione dell’arte come strumento di legittimazione di un potere statale coinvolto in un conflitto asimmetrico e in accuse di crimini di guerra.
Il nodo cruciale non è solo la questione della partecipazione, ma la riflessione più ampia sul ruolo delle istituzioni culturali di fronte alle crisi umanitarie e alla responsabilità di agire in linea con i principi di giustizia, equità e rispetto dei diritti fondamentali.
La Biennale, in questo scenario, è chiamata a confrontarsi con il peso delle proprie scelte e con le implicazioni etiche di un’azione che rischia di compromettere la propria credibilità e il proprio ruolo di promotrice di un’arte al servizio dell’umanità.

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