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Titti Pinna: la voce spezzata di un sequestro, un baratro evitato.

Il peso di un’esistenza quasi spezzata, il baratro della disperazione evitato per un filo: così Titti Pinna, allevatore di Bonorva, ha testimoniato davanti alla Corte d’Assise di Sassari, riaprendo le cicatrici di un sequestro che lo tenne prigioniero per quasi otto mesi, dal 19 settembre 2006 al 28 maggio 2007.

La sua voce, spezzata dall’emozione, ha restituito l’eco di un calvario che lo ha segnato profondamente, un tormento alleviato solo dalla forza dei legami familiari, la promessa silenziosa di un ritorno a casa che lo ha ancorato alla vita.

L’udienza, immersa in un’atmosfera di profonda commozione, ha visto Pinna ricostruire, con dettagli angoscianti, le tappe di una prigionia in cui la speranza vacillava costantemente.
La sua testimonianza, richiesta dal pubblico ministero Gilberto Ganassi, ha rappresentato un tassello cruciale nel processo che vede imputato Antonio Michele Piredda, imprenditore edile di Nulvi, accusato di aver fornito supporto logistico, in particolare un furgone, durante le diverse fasi del rapimento.
Piredda, assistito dalle avvocate Antonella Cuccureddu e Ilaria Pinna, è l’unico soggetto rimasto da giudicare per questo crimine complesso, un intreccio di interessi economici e vendette personali che aveva avvolto la comunità bonorvese.

La deposizione di Pinna ha offerto uno sguardo intimo e doloroso sulla psicologia della prigionia, sulla lotta interiore per preservare la sanità mentale di fronte all’incertezza e alla privazione della libertà.

Ha descritto le sue preghiere, il suo continuo appello a una forza superiore, l’urgenza di trovare un significato in un contesto altrimenti privo di senso.

La sua testimonianza non è stata solo una cronaca di eventi, ma una riflessione sulla resilienza umana, sulla capacità di trovare la forza per superare l’orrore.
È significativo ricordare che, nei precedenti tre procedimenti legati al sequestro di Titti Pinna, altrettante sentenze definitive hanno riconosciuto la responsabilità penale di Salvatore Atzas, Giovanni Maria Manca, Antonio Faedda e dei fratelli Giovanni e Francesca Sanna, figure chiave nell’organizzazione e nell’esecuzione del rapimento.
La loro condanna ha contribuito a gettare luce sulle dinamiche criminali che si celavano dietro l’atto di sequestro, ma l’accusa nei confronti di Piredda mira a chiarire il suo ruolo specifico e il suo grado di partecipazione alla rete di complici.
L’udienza ha evidenziato, ancora una volta, come il sequestro di Titti Pinna non sia stato un episodio isolato, ma il culmine di tensioni latenti e conflitti radicati nel tessuto sociale ed economico del territorio, un monito sulla fragilità dei legami comunitari e sulla necessità di contrastare ogni forma di criminalità organizzata.
La testimonianza di Pinna, benché dolorosa, rappresenta un atto di coraggio e un contributo importante alla ricerca della verità e della giustizia.

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