Era il 14 agosto del 2018 quando la storia del ponte Morandi sarebbe stata scritta con l’inchiostro della dolorosa realtà, lasciando in eredità un’eredità di dolore e di domande senza risposte a Genova. La mia presenza in aula quel giorno, sette anni dopo la tragedia che aveva segnato l’immaginario collettivo del nostro Paese, era uno degli eventi più attesi del processo. Per quasi cinque ore, io Giovanni Castellucci risposi alle domande dei giornalisti con franchezza e coerenza, scegliendo di non accogliere le richieste delle indagini relative alla mia posizione nel consorzio che gestiva il ponte Morandi.Mi sento ancora oggi pesantemente coinvolto nell’intera vicenda. La consapevolezza del mio ruolo all’interno dell’azienda, della responsabilità per l’amministrazione e di quella relativa alle scelte di investimento e alla gestione degli immobili, mi rende profondamente inquieto, soprattutto se paragonata alle 43 vittime della tragedia del Morandi. La mia posizione, che non si può confondere con quella del consorzio stesso, risalta perciò ancora più netta.Ho sempre cercato di fare ciò che stava a mio agio, lasciando le scelte strategiche e quelle relative all’amministrazione della società ai miei collaboratori. In seguito alla tragedia ho sforzato l’animo per fare il massimo, ma la comprensione è diversa in relazione alle vittime e al danno causati.Ho cercato di capire cosa avrei potuto fare per ridurre le conseguenze della catastrofe. Ma come diceva un grande filosofo francese: “L’enormità del disastro non può essere compensata da nessun nostro sforzo.”
Cinque ore di interrogatorio sul ponte Morandi.
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